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Marco Caldara
19 January 2017

Djokovic, volere non è più potere

Sei mesi fa si parlava di Grande Slam, oggi vien da chiedersi che fine abbia fatto il vero Novak Djokovic. Nell'animo del campione si è rotto qualche ingranaggio, il dominatore si è scoperto fragile, e i casi del passato fanno nascere un dubbio: siamo sicuri che il Roland Garros 2016 non sia stato il suo ultimo titolo Slam?
In certi casi sei mesi sono una miseria, in altri possono bastare a cambiare tutto. Lo scorso giugno, dopo il titolo di Novak Djokovic al Roland Garros, parlare di Grande Slam era diventato normale, quasi scontato. Il serbo sembrava imbattibile, pronto a raggiungere Rod Laver nel più ristretto club della racchetta e andare a insidiare i 17 Slam di Roger Federer. Mentre solamente mezza stagione più tardi viene addirittura da chiedersi se riuscirà mai più a vincere uno Slam. Ipotesi forzata? Probabilmente sì. Ma anche avvalorata dai tanti casi del passato. Il più eloquente è quello di Rod Laver: nel 1969 completò il Grande Slam, ma poi non raggiunse più nemmeno una semifinale. E Bjorn Borg? Fra 1978 e 1981 giocò undici finali in dodici Slam, ne vinse sette e poi… finì per ritirarsi ad appena 25 anni. John McEnroe nell’84 conquistò fra Wimbledon e Us Open i suoi Slam numero 7 e 8, ma poi non raggiunse più nemmeno una semifinale. Per non parlare di Mats Wilander e del suo 1988: titolo in Australia, titolo a Parigi, titolo a New York e numero uno del mondo in cassaforte. Ma una sola semifinale negli otto anni successivi. Ci sono esempi anche nel presente: dopo la vittoria al Roland Garros del 2014 “Rafa” Nadal ha giocato appena due quarti Slam, mentre Federer compiuti i 29 anni (l’età di Djokovic) ne ha vinto uno solo, Wimbledon 2012. Un insieme di statistiche che magari significa poco o nulla, perché ogni giocatore fa storia a sé. Oppure, lo scopriremo fra un po’, sta anticipando a Djokovic un futuro che non avrebbe augurato nemmeno al suo peggior nemico.
È ovvio che nella testa del serbo sia cambiato qualcosa. Si è spento quel fuoco interiore capace di portarlo un gradino sopra tutti gli umani. Specialmente a Melbourne, la sua Melbourne, dove ha costruito buona parte del campione che è diventato. Fino a poco tempo fa i match così li vinceva col cognome, e se non bastava quello ci metteva il tennis, e se non bastava il tennis ci metteva testa, gambe e cuore. Contro Istomin invece è andato alla deriva da perdente, vincendo sette punti in più ma cedendo due tie-break. Gli sono mancati i suoi punti cardine: la risposta, il killer instinct per ammazzare il match nel quarto set, quella fame di vittorie capace di divorarsi tutte le difficoltà. Altro che RoboNole o robe simili. Il titolo a Doha sembrava averlo rilanciato, invece è stata la più amara delle illusioni, l’antipasto di una cena da tre stelle Michelin andata di traverso alla prima portata. Era da Wimbledon 2008 che non perdeva al secondo turno di uno Slam, e di giornate storte gliene erano capitate eccome. Anche a Melbourne, lo scorso anno, contro Gilles Simon. Fece cifra tonda di gratuiti, cento (!), ma l’ultimo punto lo vinse lui. Stavolta no. La sconfitta terribile contro Sam Querrey è stata rapidamente scalzata dal titolo di punto più basso della sua carriera. E se uno come lui, dopo una sconfitta simile, dice di aver “solo voglia di tornare a casa dalla famiglia”, vuol dire che dal Roland Garros in avanti qualcosa si è rotto per davvero. Nell’animo del campione d’acciaio che di colpo si è scoperto fragile. Volere non è più potere. E solo lui sa quanto sia difficile da accettare.

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