Un tennista mi ha detto che saper giocare bene a tennis è un conto, ma saper competere è tutta un’altra cosa.
«Vero. Il nostro è uno sport complesso, in cui devi saper gestire tanti aspetti. Non si tratta solo andare in campo e colpire la palla, quello lo sanno fare in tante. Ci sono altre componenti in cui devi essere brava: allenarti nel modo giusto, per esempio. Che è un discorso personale, varia per quantità e tipo di lavoro, ma va fatto al meglio. O saper tirare fuori il meglio nella lotta: perché a volte giochi tranquilla, ma capita solo in certe circostanze; in altre, per esempio in Fed Cup, succede che la tensione ti paralizzi. E devi usare altre doti, se il tennis viene a mancare».
Che cos’è il talento? È il bel gesto, il tocco, il gran colpo che accende il pubblico? È saper vincere?
«Il talento? Onestamente è una parola che non ho mai usato, non è proprio nel mio vocabolario. Direi che ce ne sono tanti, ma io parlerei di qualità: c’è chi ha il gran colpo, chi la mentalità giusta per fare il professionista, chi ha un talento fisico per questo sport. Certo è che, per essere lì in alto, qualcosa lo devi avere. In generale, però, la gente considera il talento… Vabbè, non mi esprimo».
Il pubblico è attirato dal colpo spettacolare e dal gioco stiloso. Torniamo al rapporto con i consumatori del tennis: la sensazione è che, da una famosa intervista post-Parigi 2012, ti sia chiusa in un fortino per difenderti dai giudizi puntuti della gente e della stampa.
«Non è che mi sia chiusa. Anzi: quando parlo, cerco sempre di dire quello che penso. Il problema è un altro: quell’anno ero finita sulla copertina di Vanity Fair con una frase virgolettata che non avevo mai detto (“Balotelli non mi piace”, n.d.a.) e trovai scritte altre cose mai pronunciate, o stravolte nel loro senso: come si poteva pensare che potessi davvero definire Federer un fighetto, o che avessi poca stima dei giocatori italiani? Mi sono sentita impotente, usata, sono stata malissimo. È stata una delle cose più brutte che mi siano mai capitate. E non avevo neppure possibilità di replica: la stampa, in questo, ha un potere allucinante. Ci avevo pure provato, a spiegare com’erano andate le cose, sui miei social: nessuno mi diede retta. Fu davvero una mazzata, tanto più che capitò nei giorni in cui avevo fatto finale a Roland Garros».
È passato del tempo ma la ferita sembra fresca.
«Perché e dura, ancora adesso. Nonostante gli anni trascorsi, ogni tanto continuano a scrivere che odio l’Inter, o a rinfacciarmi altre cose. Forse un altro, al posto mio, se ne fregherebbe. Io non ci riesco. Invece i commenti, dico quelli molto critici, non mi danno così fastidio: certo, è brutto leggere giudizi negativi, ma ho imparato a conviverci. In fondo, se non vuoi insulti, chiudi i social e finita lì».
In campo sembri disposta a immolarti pur di vincere: ma quanto dura, la gioia di un successo?
«Poco. Banalmente, se vinci il giorno dopo sei già in campo. Se perdi, hai cinque giorni per pensarci prima della partita successiva. Vincere mi dà gioia, ma non hai tempo di gustarla. Rispetto agli anni scorsi, ora cerco di dimenticare in fretta una sconfitta; da ragazza soffrivo di più, ora riesco a “perdere meglio”. E sono più consapevole di tutto, anche di aver vinto giocando male, quando succede».
Quale vittoria ha cambiato la vita?
«Sarebbe facile dire la semifinale di Roland Garros 2012 contro la Stosur, ma la “mia” partita è stata il terzo turno contro la Ivanovic. Prima di quel torneo, contro le grandi ero sempre in sofferenza (fino a Parigi 2012 aveva un bilancio di 28 sconfitte in altrettanti incontri contro le top 10, n.d.a.). La verità è che non pensavo di poterle battere. Contro Ana persi il primo set 6-1, sembrava dovesse finire come al solito. Invece riuscii a cambiare direzione alla partita e quel match mi diede una fiducia che mai avevo provato».