“Ho sempre dato importanza alla scuola, ricordo che fra i giovani tennisti più promettenti, al centro tecnico federale di Riano Flaminio, ero l’unico che andava al liceo scientifico pubblico e non studiavo privatamente. Ma, sono sincero, se ho continuato, dopo la scuola dell’obbligo, devo ringraziare i miei genitori che hanno insistito che mi prendessi una laurea. Così, mi sono iscritto a Giurisprudenza, a Bologna, all’inizio soprattutto per rinviare il servizio militare, ma facendo pure un paio di esami l’anno, pur prendendomela comoda e finendo in dieci anni, alla fine mi sono laureato” Parola di Andrea Gaudenzi, ex n.18 ATP, che ha rilasciato un'intensa intervista al sito SportSenators, in cui ha raccontato la sua vita durante e dopo il professionismo.
Gaudenzi è uno dei pochi tennisti italiani ad aver avuto successo sia nel tennis che nella vita professionale: “Ne sono stato contento. Perché, a un certo punto, mi sono sentito stanco del tennis. Ricordo ancora la sensazione che provai, in campo, a Kitzbuhel, contro Goellner: mi faceva addirittura piacere quando lui mi faceva il punto, non avevo più l’intimo desiderio di vincere: era il momento di smettere. Era il 2003, ricordo benissimo che giocai l’ultimo torneo a San Marino e quattro giorni dopo mi iscrissi a un Masters di Business Administration alla International University di Monaco: avevo 30 anni, ma la mattina andavo a scuola come uno studente qualsiasi, col mio motorino e lo zainetto in spalla, e restavo in classe otto ore al giorno. Così, per un anno, è stata dura, all’inizio mi sentivo molto svantaggiato rispetto agli altri in materie come matematica, statistica, finanza ed economia, ero indietro, ma mi sono sempre piaciute le sfide e alla fine sono uscito con ottimi voti, oltre ad avere imparato tante cose che la Giurisprudenza non mi aveva dato.”
BAGNO DI UMILTA’
Gaudenzi spiega perché sia così importante per un tennista cercare di aprire i propri orizzonti: “Adesso che ho tre figli che praticano il tennis penso spesso a come non sia è facile per un ex atleta integrarsi nel mondo del lavoro, a mio parere, per due problematiche fondamentali comuni a quasi tutti i paesi, esclusi gli Stati Uniti, dove invece chi fa sport, in generale, è supportato dal sistema. A 15-16 anni, quando fai uno sport agonistico, devi cominciare per forza viaggiare molto e hai meno tempo per studiare, per cui la scuola dovrebbe supportare l’atleta di livello, e non creare delle difficoltà. Inoltre, una volta chiusa l’attività, dopo aver vissuto grandi esperienze personali, dopo essere stato qualcuno, riconosciuto e coccolato, con la Mercedes che ti viene a prendere in aeroporto e l’albergo a cinque stelle, devi ricominciare completamente da zero in un mondo altrettanto competitivo come quello del lavoro. Ricordo benissimo i primi 3-4 anni, che sono stati molto duri, ho fatto tanta fatica: fare questo bagno di umiltà non è facile per nessuno e senza neanche una base accademica diventa molto difficile integrarsi. Forse è diverso per il calcio: è un mondo più vasto, ci sono più squadre e organismi, dunque esistono anche più possibilità di continuare nello stesso ambito, di riciclarsi in un altro ruolo, ma nel tennis i posti di lavoro a disposizione sono molto meno. E quindi… è meglio che i miei figli pensino alla scuola e poi allo sport: è fantastico e meraviglioso, ma non è tutta la vita. Dopo ce n’è un’altra più lunga e insidiosa.”