Un buon succedaneo di quello spirito frizzante da inviato in trasferta, che mi piaceva da matti a cominciare dalla colazione con lettura del giornale locale ovunque mi trovassi (pure a Maspalomas per dire, autunno 2002, finale di Fed Cup, dove approfondii la notizia di un tragico incidente di tre ragazzi finiti contro una palma la notte prima a bordo di una Peugeot 106) è l’alcol. Esatto, l’alcol. Un reportage dal divano con ausilio del bottiglione. Stavolta mi va pure di lusso perché mica è il pintone di Soave Zonin dei bei tempi andati di San Salvario e dell’Università a Torino
; non è etichettato, perché me lo ha regalato il produttore in cambio di un parere, ma è uno straordinario magnum di nebbiolo d’Alba, 120 euro in carta da Fracchia&Berchialla.
Tivù, tablet, tavolino: posso anche cambiare canale in libertà, mica come quelli che scommettono, cioè praticamente tutti quelli che mi stanno intorno. Giornalisti compresi, eh: professionisti della mitragliata di clic su Betfair e robe simili. Chiedo scusa, ma non ho mai capito cosa ci sia di divertente. Dicono sia un linguaggio universale, che se parli di scommesse con qualcuno mentre ti rompi le palle, che ne so, aspettando un treno in ritardo o bloccato in aeroporto, troverai sempre un argomento con cui attaccare discorso. Io so soltanto che,
se per attaccare bottone devo ragionare sulla quota di Paire-Anderson, preferisco stare due ore vomitare il pastis, come quella volta a Prato Nevoso nel ‘97. Un anno a Parigi, dopo sei ore di telecronaca in una cabina di un metro per uno e l’unico desiderio di mettersi a correre per tutta rue de Rivoli, si andava a cenare mestamente sotto l’albergo e venivano a farci compagnia dei ragazzi italiani che vivevano di quello. Di scommesse, dico. E si stava un’ora e più a cavillare se uno avesse fatto bene a “bancare” (eh?) Robredo nel quarto set, e quell’altro se davvero fosse certo che uno si era venduto la partita dell’indomani e aveva già prenotato il volo, e poi quella volta che la scheda sim slovacca si era bloccata di botto e uno ci aveva rimesso cinquemila euro per un clic. Grasse risate.
A un certo punto, uno dei ragazzi si era fidanzato con la Rezai e il papà, di nome Arsalan, capirete, non faceva i salti di gioia. Ecco, in effetti quando uscì quella storia li guardai per la prima volta in faccia e feci anche qualche domanda, tipo sulla logistica, visto che i Rezai mi risultava girassero per i tornei scrausi in roulotte.
Fosse per me, le scommesse le avrebbero abolite da una vita. Pure se mi hanno offerto dei soldi, per fare pubblicità a qualche bookmaker, ma un po’ di palle ce le devi avere e non dovresti fare il santo in pubblico e il venduto in privato. Poi so che il direttore di Unicredit sarebbe molto felice di sapere che ho cambiato idea, ma scrivere su Twitter “Ehi, stasera siete pronti a guardare Almagro vs Chung, dato a 2.10? #bettingforever” per soldi no, non mi va.
Finire a fare il marchettaro come quella “influencer” (eh?) sgamata da Report, la Maci, non mi garba proprio. A parte il fatto che il mio ordine professionale lo vieta ma vabbè, se stiamo a vedere proibisce tante altre cose che invece fanno quasi tutti sbattendosene allegramente i cosiddetti, ma teoricamente noialtri dovremmo avere un codice etico da rispettare, e mica solo quando diamo notizie.
Però il sindacato della stampa fa le fiaccolate se un giornalista, assunto a tempo indeterminato con scatti automatici, quattordicesima, mutua, buoni pasto, Tfr, straordinari, festivi e superfestivi pagati viene spostato da Roma a Milano. Attacco alla libertà di stampa, macelleria sociale, vergogna!
Quando, semmai, è solo una solenne rottura di palle per uno che, magari con moglie e figli, deve sradicarsi da un posto e andare a stare in un altro. E lo capisco bene, che protesti, lo farei pure io. Forse capisco meno perché tutti gli altri, che se si beccano la laringite non lavorano e sono affari loro, che vengono pagati a mezze ore come le signorinelle di viale Zara - e la tariffa è la stessa anche se sono le tre del mattino o è Pasqua - possono serenamente morire ammazzati senza che nessuno si stracci le vesti. E non siamo pochi: ormai i freelance vanno verso il 70% della forza lavoro in Italia, e la Fnsi (il sindacato) è tutta impegnata a difendere i contrattualizzati, quella roba preistorica del rinnovo del Cnlg, le pensioni aggredite da un salasso di 50 euro di prelievo per i morti di fame e altre battaglie di retroguardia assortite. Clap clap, bravi.
Intanto, vi sfugge che un giornalista autonomo fattura, in media, 11.000 euro l’anno. Togli le tasse, il commercialista, l’Inpgi, le spese e ti restano, forse, 300 euro. Poi non stupitevi se la vostra tessera ve la tirerebbero dietro, anche iniziaste a regalarla.
Il problema, tornando al tennis e al nebbiolo che è veramente super, è che non su tutti i canali puoi levare il commento, se quello che ascolti ti sta sulle scatole. Oh, sono sicuro che qualcuno lo faccia con me, e sono lieto di poter sparire dal suo campo uditivo, anzi, mi perdoni l’incomodo. Quindi oggi ho dovuto scegliere tra guardare un set senza audio - ma lo sport muto, a differenza dei talk show che sono divertenti quando due si accapigliano senza volume, ti puoi concentrare sugli sguardi e sulle mani che si agitano - è uno schifo.
Ragione per cui mi sono condannato a sentire queste cose, che mi sono segnato: «Bravo: prima passivo, poi attivo, poi proattivo», che sembra preso dal bugiardino del Moment. Oppure «samurai nipponico» perché certo, se uno è giapponese è samurai, se è svedese è vichingo, se è italiano suona il mandolino e mangia la pizza. Ma porca miseria, costa tanto accendere il cervello prima di parlare? Ci fosse stato uno come Beppe Viola, questi che dicono «mette a referto un ace» o «lo svizzero sale in cattedra» li avrebbe multati con cinquemila lire, come faceva nella redazione di
Magazine. O forse, più probabilmente, li avrebbe spediti a raccogliere le albicocche. Invece
Magazine non c’è più, in compenso ci sono duecento siti web fatti col didietro (e con maggioranza assoluta di lavoro volontario) perché i ragazzi, senza una guida, pensano davvero che “Buona la prima per Sara” sia un titolo. A me, nessuno aveva insegnato niente e il primo reportage tennistico lo copiai, pensate che genio che ero, dal cronista storico di
Tennis Italiano, il mitologico fotoreporter specializzato in piedi tagliati e prosa da terza elementare.
Scrissi un attacco simile a “Sui campi della Favorita si è conclusa la ventesima edizione del torneo Atp di Palermo” e venni pesantemente cazziato dall’allora vicedirettore di questa rivista, un bravo giornalista con il coraggio chiuso a chiave nel guardaroba, infatti è finito a lavorare per la federazione. Dove hai libera scelta tra due opzioni: o improvvisamente la pensi su tutto come loro, quindi hai quasi sempre torto, oppure ciao.
Prima che iniziate a pensare che mi stia dando delle arie, sappiate che ho già provveduto a farmi da parte: ho restituito le braccia alla terra, comprato un bel pezzo di terreno dietro casa e, quando non piove o non devo lavorare per mantenere la baracca, vado di zappa ascoltando
Radio Radicale (segnalo la rassegna stampa di Massimo Bordin e le interviste di Alessio Falconio in Parlamento) o
Radio24 (fino alla
Zanzara esclusa, perché quei due tizi che la conducono sono una pallida imitazione di Alan Berg, che però era davvero bravo e, purtroppo, fu fatto secco da un neonazista di Denver. A volte mi capita di sentire
Tutti convocati ed è meglio non dica altro).
A Milano non ci vivo più da anni, non frequento redazioni, me ne sto rintanato nelle Langhe, lavoro a cottimo e a quanto pare il mondo fa benissimo a meno di me. Pure quello del tennis. Al torneo di Roma, per dire, non ci metto i piedi da anni. Preferisco andare a Monte Carlo: lì è davvero tutto finto, ti basta uscire dal circolo e svoltare in avenue de France per ritrovare il supermercato, il meccanico senza le Lotus da riparare e il kebabbaro puzzolente; però al Country Club sono gentili, hanno rispetto di chi lavora, forse è solo opportunismo perché ti trattano bene nella consapevolezza che un reporter contento è più probabile scriva cose carine sul torneo, come sto facendo io ora, ma tant’è. Al mattino, ti offrono la colazione vista mare. A Roma? No comment. Vi dico solo che
quella gente era talmente incazzata per quello che scrivevo che, non potendomi querelare perché erano cose vere, provò a farmi saltare tutte le collaborazioni che avevo, arrivando a minacciare i miei editori. Un tizio di quelli lì è andato in pensione senza esserci riuscito, a farmi cambiare mestiere. Povero.