Gonzo Tennis

GONZO TENNIS - Tivù, tablet, tavolino, telecomando libero e una bottiglia di Nebbiolo che accompagna le riflessioni. Sul tennis, certo. Ma anche sulla pericolosa curva imboccata dal mondo del giornalismo, parlato (male) e scritto (peggio). Fra scommesse, marchette, frasi fatte e poca voglia di accendere il cervello.
Doverosa premessa: il Gonzo Journalism è un particolare stile di scrittura giornalistica, creato dallo scrittore e giornalista statunitense Hunter Stockton Thompson. Il termine è stato utilizzato per la prima volta in riferimento agli scritti di Thompson nel 1970 dal giornalista del Boston Globe Bill Cardoso, secondo il quale il termine è nato nella comunità irlandese di Boston e indica l'ultima persona ancora in piedi dopo una maratona di bevute durata tutta la notte. Secondo tale stile, il giornalismo può essere veritiero senza dover essere rigidamente oggettivo e mira a descrivere le esperienze personali, le sensazioni, gli umori piuttosto che i fatti. Ciò che scriveva il dottor Thompson era quello che pensava, senza compromessi, lasciati a chi è troppo timido, o troppo sobrio, per farsi sentire a voce piena. Il Gonzo non esclude soltanto l’oggettività dagli articoli per sacrificarsi completamente alla soggettività dell’autore, non è soltanto una questione di stile veloce e incalzante al punto da somigliare più a un comizio che a un pezzo giornalistico, ma azzera qualsiasi altra soggettività che non sia quella del suo creatore. Il dottor Thompson si tolse la vita il 20 febbraio del 2005, lasciando solo una breve quanto superflua nota di commiato, in ritardo rispetto alla confessione fatta a Steadman al compimento dei cinquant’anni: «Mi sembra già di essermi concesso di vivere abbastanza. Mi sembra già piuttosto tardi per restituire i coglioni a Dio». Sulla falsariga di questo stile, Federico Ferrero (in compagnia di una buona bottiglia di Nebbiolo), ha tirato fuori ciò che aveva dentro. E non è finita qui, perché sul numero di giugno di Tennis Italiano…
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«Qui lo spagnolo ha servito bene in fuori, poi ha attaccato con il dritto e ha chiuso con lo smash». Per fortuna, gli occhi mi funzionano ancora. Chiamo questa roba la “telecronaca per non vedenti” e, mannaggia la miseria, non ho mai capito perché il microfono renda la gente più rimbambita di quello che è. Voi direste mai, anche solo a un vostro amico al bar, che ieri «il serbo è salito in cattedra, il teutonico mai domo si è difeso con le unghie e i con denti ma, al termine di una gara al cardiopalmo (ma ho anche sentito «cardiopalma») il più titolato dei contendenti si è aggiudicato il confronto»? Non credo, a meno di non volervi far prendere per fessi: semmai, Djokovic ha giocato una partita lottata contro Zverev e ha vinto. No? Eppure.
Ma perché sto parlando di tennis? Ah sì, beh, in fondo perché mi pagano e, forse, mi piace ancora. Fosse per me, vi racconterei del caso di Lidia Macchi. Sapete che è morta ammazzata nel 1987 e il processo lo stanno celebrando adesso? Una ragazza viene stuprata e ammazzata in provincia di Varese, presumibilmente da un pischello mezzo artista della compagnia. Il PM non riesce a identificarlo manco se ce l’ha lì, sotto gli occhi; i vetrini col Dna si perdono, il fascicolo finisce a fare muffa in procura e tanti saluti. Quando riaprono le indagini - perché ormai i cold case sono di moda anche qui, non impegnano perché nessuno ti mette fretta e soprattutto ti procurano tante belle citazioni sui giornali – e riesumano la salma di Lidia, scoprendo che per un difetto di saldatura era rimasta a mollo in venti centimetri d’acqua. Addio reperti da analizzare. Sicché, dopo trent’anni, provano a processare un tizio cinquantenne (insomma, uno di quegli amici, a mio parere è quello giusto) usando come prova due testimoni e qualche scritta sulle sue agendine del liceo. Su una, scrisse “Stefano è un barbaro assassino”. Bel pirla, se lo condanneranno!

Oh: non è che il tennis non fosse una mia passione infantile, però è diventato un lavoro da un bel po’ di anni e credo sia come per le pornostar: su Netflix trovate un documentario in cui gli attori raccontano che, dopo un centinaio di scene, pure quello diventa come andare in ufficio a registrare le fatture. Che poi non sarebbe neanche così frustrante, fare il giornalista. Ma lo è diventato: essere mediamente dotati, ormai, è quasi una sfiga. Non riesci più a sfruttare le capacità a tuo vantaggio, ti pagano quasi sempre da schifo e sei circondato da caproni. Faccio il mio caso: al mio primo Slam sul posto, c’erano Rino (Tommasi), Gianni (Clerici), Ubaldo (Scanagatta), Stefano (Semeraro). Adesso? Lasciamo stare. Di giornalisti, in giro, non ne vedi quasi più. Spedire la gente per il mondo costa troppo caro, se a deciderlo è chi dovrebbe finanziare le trasferte ma è troppo stupido per capire la differenza tra un torneo visto in televisione e stare là, ad annusare l’aria, a parlare con la gente, a dare ossigeno alle meningi. Sono cosucce elementari che, se non le cogli, sarebbe meglio ti occupassi di qualcos’altro e invece, mediamente, finisci a fare il capo perché sei bravo a contenere i costi.
Questo per dire che, se ho del tempo, raramente lo uso per guardare partite di tennis; preferisco Un giorno in pretura, su cui sono preparato come il mitico conterraneo Gianluigi Marianini di Lascia o raddoppia?.
Un buon succedaneo di quello spirito frizzante da inviato in trasferta, che mi piaceva da matti a cominciare dalla colazione con lettura del giornale locale ovunque mi trovassi (pure a Maspalomas per dire, autunno 2002, finale di Fed Cup, dove approfondii la notizia di un tragico incidente di tre ragazzi finiti contro una palma la notte prima a bordo di una Peugeot 106) è l’alcol. Esatto, l’alcol. Un reportage dal divano con ausilio del bottiglione. Stavolta mi va pure di lusso perché mica è il pintone di Soave Zonin dei bei tempi andati di San Salvario e dell’Università a Torino; non è etichettato, perché me lo ha regalato il produttore in cambio di un parere, ma è uno straordinario magnum di nebbiolo d’Alba, 120 euro in carta da Fracchia&Berchialla.
Tivù, tablet, tavolino: posso anche cambiare canale in libertà, mica come quelli che scommettono, cioè praticamente tutti quelli che mi stanno intorno. Giornalisti compresi, eh: professionisti della mitragliata di clic su Betfair e robe simili. Chiedo scusa, ma non ho mai capito cosa ci sia di divertente. Dicono sia un linguaggio universale, che se parli di scommesse con qualcuno mentre ti rompi le palle, che ne so, aspettando un treno in ritardo o bloccato in aeroporto, troverai sempre un argomento con cui attaccare discorso. Io so soltanto che, se per attaccare bottone devo ragionare sulla quota di Paire-Anderson, preferisco stare due ore vomitare il pastis, come quella volta a Prato Nevoso nel ‘97. Un anno a Parigi, dopo sei ore di telecronaca in una cabina di un metro per uno e l’unico desiderio di mettersi a correre per tutta rue de Rivoli, si andava a cenare mestamente sotto l’albergo e venivano a farci compagnia dei ragazzi italiani che vivevano di quello. Di scommesse, dico. E si stava un’ora e più a cavillare se uno avesse fatto bene a “bancare” (eh?) Robredo nel quarto set, e quell’altro se davvero fosse certo che uno si era venduto la partita dell’indomani e aveva già prenotato il volo, e poi quella volta che la scheda sim slovacca si era bloccata di botto e uno ci aveva rimesso cinquemila euro per un clic. Grasse risate. A un certo punto, uno dei ragazzi si era fidanzato con la Rezai e il papà, di nome Arsalan, capirete, non faceva i salti di gioia. Ecco, in effetti quando uscì quella storia li guardai per la prima volta in faccia e feci anche qualche domanda, tipo sulla logistica, visto che i Rezai mi risultava girassero per i tornei scrausi in roulotte.
Fosse per me, le scommesse le avrebbero abolite da una vita. Pure se mi hanno offerto dei soldi, per fare pubblicità a qualche bookmaker, ma un po’ di palle ce le devi avere e non dovresti fare il santo in pubblico e il venduto in privato. Poi so che il direttore di Unicredit sarebbe molto felice di sapere che ho cambiato idea, ma scrivere su Twitter “Ehi, stasera siete pronti a guardare Almagro vs Chung, dato a 2.10? #bettingforever” per soldi no, non mi va. Finire a fare il marchettaro come quella “influencer” (eh?) sgamata da Report, la Maci, non mi garba proprio. A parte il fatto che il mio ordine professionale lo vieta ma vabbè, se stiamo a vedere proibisce tante altre cose che invece fanno quasi tutti sbattendosene allegramente i cosiddetti, ma teoricamente noialtri dovremmo avere un codice etico da rispettare, e mica solo quando diamo notizie.

Però il sindacato della stampa fa le fiaccolate se un giornalista, assunto a tempo indeterminato con scatti automatici, quattordicesima, mutua, buoni pasto, Tfr, straordinari, festivi e superfestivi pagati viene spostato da Roma a Milano. Attacco alla libertà di stampa, macelleria sociale, vergogna! Quando, semmai, è solo una solenne rottura di palle per uno che, magari con moglie e figli, deve sradicarsi da un posto e andare a stare in un altro. E lo capisco bene, che protesti, lo farei pure io. Forse capisco meno perché tutti gli altri, che se si beccano la laringite non lavorano e sono affari loro, che vengono pagati a mezze ore come le signorinelle di viale Zara - e la tariffa è la stessa anche se sono le tre del mattino o è Pasqua - possono serenamente morire ammazzati senza che nessuno si stracci le vesti. E non siamo pochi: ormai i freelance vanno verso il 70% della forza lavoro in Italia, e la Fnsi (il sindacato) è tutta impegnata a difendere i contrattualizzati, quella roba preistorica del rinnovo del Cnlg, le pensioni aggredite da un salasso di 50 euro di prelievo per i morti di fame e altre battaglie di retroguardia assortite. Clap clap, bravi. Intanto, vi sfugge che un giornalista autonomo fattura, in media, 11.000 euro l’anno. Togli le tasse, il commercialista, l’Inpgi, le spese e ti restano, forse, 300 euro. Poi non stupitevi se la vostra tessera ve la tirerebbero dietro, anche iniziaste a regalarla.

Il problema, tornando al tennis e al nebbiolo che è veramente super, è che non su tutti i canali puoi levare il commento, se quello che ascolti ti sta sulle scatole. Oh, sono sicuro che qualcuno lo faccia con me, e sono lieto di poter sparire dal suo campo uditivo, anzi, mi perdoni l’incomodo. Quindi oggi ho dovuto scegliere tra guardare un set senza audio - ma lo sport muto, a differenza dei talk show che sono divertenti quando due si accapigliano senza volume, ti puoi concentrare sugli sguardi e sulle mani che si agitano - è uno schifo. Ragione per cui mi sono condannato a sentire queste cose, che mi sono segnato: «Bravo: prima passivo, poi attivo, poi proattivo», che sembra preso dal bugiardino del Moment. Oppure «samurai nipponico» perché certo, se uno è giapponese è samurai, se è svedese è vichingo, se è italiano suona il mandolino e mangia la pizza. Ma porca miseria, costa tanto accendere il cervello prima di parlare? Ci fosse stato uno come Beppe Viola, questi che dicono «mette a referto un ace» o «lo svizzero sale in cattedra» li avrebbe multati con cinquemila lire, come faceva nella redazione di Magazine. O forse, più probabilmente, li avrebbe spediti a raccogliere le albicocche. Invece Magazine non c’è più, in compenso ci sono duecento siti web fatti col didietro (e con maggioranza assoluta di lavoro volontario) perché i ragazzi, senza una guida, pensano davvero che “Buona la prima per Sara” sia un titolo. A me, nessuno aveva insegnato niente e il primo reportage tennistico lo copiai, pensate che genio che ero, dal cronista storico di Tennis Italiano, il mitologico fotoreporter specializzato in piedi tagliati e prosa da terza elementare. Scrissi un attacco simile a “Sui campi della Favorita si è conclusa la ventesima edizione del torneo Atp di Palermo” e venni pesantemente cazziato dall’allora vicedirettore di questa rivista, un bravo giornalista con il coraggio chiuso a chiave nel guardaroba, infatti è finito a lavorare per la federazione. Dove hai libera scelta tra due opzioni: o improvvisamente la pensi su tutto come loro, quindi hai quasi sempre torto, oppure ciao.
Prima che iniziate a pensare che mi stia dando delle arie, sappiate che ho già provveduto a farmi da parte: ho restituito le braccia alla terra, comprato un bel pezzo di terreno dietro casa e, quando non piove o non devo lavorare per mantenere la baracca, vado di zappa ascoltando Radio Radicale (segnalo la rassegna stampa di Massimo Bordin e le interviste di Alessio Falconio in Parlamento) o Radio24 (fino alla Zanzara esclusa, perché quei due tizi che la conducono sono una pallida imitazione di Alan Berg, che però era davvero bravo e, purtroppo, fu fatto secco da un neonazista di Denver. A volte mi capita di sentire Tutti convocati ed è meglio non dica altro). A Milano non ci vivo più da anni, non frequento redazioni, me ne sto rintanato nelle Langhe, lavoro a cottimo e a quanto pare il mondo fa benissimo a meno di me. Pure quello del tennis. Al torneo di Roma, per dire, non ci metto i piedi da anni. Preferisco andare a Monte Carlo: lì è davvero tutto finto, ti basta uscire dal circolo e svoltare in avenue de France per ritrovare il supermercato, il meccanico senza le Lotus da riparare e il kebabbaro puzzolente; però al Country Club sono gentili, hanno rispetto di chi lavora, forse è solo opportunismo perché ti trattano bene nella consapevolezza che un reporter contento è più probabile scriva cose carine sul torneo, come sto facendo io ora, ma tant’è. Al mattino, ti offrono la colazione vista mare. A Roma? No comment. Vi dico solo che quella gente era talmente incazzata per quello che scrivevo che, non potendomi querelare perché erano cose vere, provò a farmi saltare tutte le collaborazioni che avevo, arrivando a minacciare i miei editori. Un tizio di quelli lì è andato in pensione senza esserci riuscito, a farmi cambiare mestiere. Povero.
Mentre Nadal trita ciò che resta della concorrenza sulla terra rossa a Madrid – un giorno Djokovic ci spiegherà cosa diavolo gli sia capitato, perché un crollo del genere non lo avevo mai visto, manco in Sampras versione Dead man walking – ricevo in posta un ritaglio di Sport Week. Dice che, se non lo avessero programmato per vincere solo dalla metà di aprile alla metà di giugno, Rafa sarebbe potuto diventare anche più forte di Federer. Come? Facile: col rovescio a una mano, il dritto piatto, il serve&volley, i gesti bianchi. Aspe’, un altro bicchiere di nebbiolo alla russa (è un modo di dire locale, significa scolarselo), perché non ci credo. Mi stropiccio gli occhi, il testo è ancora lì: «È stato costruito in un altro modo e deve accontentarsi di essere leggenda delle leggende per due mesi soltanto». Per due mesi soltanto. Negli altri dieci, in effetti, ha vinto solo gli Australian Open, due volte Wimbledon, gli Us Open, fatto altre sette finali Slam, acchiappato otto Master 1000 sul cemento, le Olimpiadi di Pechino, pure il Queen’s e Stoccarda sull’erba e un altro autotreno di titoli minori. Lo ha scritto Veronesi, uno bravo, uno scrittore. Ha vinto lo Strega, per capirci, anche se non è come il Nobel: Mattia Feltri l’ha spiegato bene sulla Stampa, come funziona quel premio. No, lui è bravo davvero, e comunque mica devo certificarlo io; ma qui dev’essere stato costretto a scriverlo sotto minaccia armata. In ogni caso, ho smesso di leggere la Gazzetta da anni. Quando me la trovavo sott’occhio al bar e c’era un pezzo di tennis, le ultime volte, rischiavo di rigurgitare il cappuccino. Ed è un dannato peccato, perché il tennis è uno sport così bello da raccontare. Invece mi devo fare tutti gli anni un abbonamento all’Équipe, spendere 100 euro e buttare via il 90% delle merdose pagine sul pallone, per trovare delle cose decenti da leggere sul tennis.
Tornando a Djokovic: a me sono arrivate all’orecchio due ipotesi sul crollo. Crisi matrimoniale con effetto domino sulla professione e crisi indotta da dieta sempre più drastica. In effetti, ormai, Novak è un fuscello. È passato dall’aura di imbattibilità all’imbarazzo dell’altro giorno, quando si inciampava nei contropiede di Nadal. Davvero non capisco come si sia potuta innescare una simile autodistruzione.

Tra un «ulla» e un «ella» apro Facebook. Se ci entro, mediamente se ne accorgono e mi scrivono scommettitori con turbe mentali, tifose di Federer che tradirebbero il marito con Roger (ma presumo anche con Chiudinelli e Luthi), teneri giovinotti che vorrebbero fare i giornalisti e pensano che la mia opinione apra loro chissà quali orizzonti di carriera. Ragazzi: su questo giornale, dico il glorioso Tennis Italiano in vita dal 1929, chi vi scrive era stato scelto come compilatore di notizie per il sito nel 2001, fresco di laurea. Oddio, scelto: mi ero segnalato per essere saccente, rompiscatole e piuttosto abile a smanettare col computer e, forse, avrebbero dato quel lavoro proprio me. Ma successe che, un giorno, esagerai con la prosopopea sul mio sito dall’indirizzo improbabile (ai tempi, comprare un dominio costava mille euro) dando del pirla al vice perché aveva confuso la finale di Wimbledon 1989 con quella del 1990. Che poi, a pensarci adesso, non era così grave. Quindi, in realtà, avevano scelto un altro. Solo che quel fesso, due sere prima di iniziare, pare avesse fatto la mano morta a una dipendente della casa editrice e zac, venne segato: credo non sappia tuttora cosa ne sia stato, di quel suo lavoro perso in due secondi di libido.
In ogni caso, devo dire che mi sono sempre sentito un po’ in colpa, nei suoi confronti. Infatti, di tanto in tanto, lo cerco su Google e lo trovo ancora lì, a scrivere le cronache del torneo dei Due Ponti. Vorrei dirgli che mi spiace, ma come faccio?
Il punto, però, è un altro. Sapete quanto mi pagavano, nel 2001, per tre articoletti sul sito? Tenetevi forte: 1500 euro. Al mese, dico. Sedici anni fa. Fate voi il conto con l’inflazione, perché non sono pratico. Più i bonus: trasferte per la Davis, la Fed Cup, Roma, Palermo, Us Open, Marocco: tutto pagato, sia chiaro, mica come oggi che i giornali ti fanno cacciare i soldi per il viaggio e l’albergo in cambio di un accredito e gli articoli li scrivono non più gli inviati ma i pensionati, i figli di papà, i perditempo e qualche attempato benestante che si traveste da reporter e si guarda Federer in tribuna, fingendo di prendere appunti sulla partita e poi attacca i pezzi con “Una rocambolesca seconda giornata del torneo di Parigi”, per restare in tema multe di Beppe Viola. Oggi, pure i quotidiani nazionali osano offrire 15 euro al pezzo e la colpa è loro, se fanno scrivere chiunque purché costi sempre meno.

Nadal ha battuto ancora Thiem, che ha la mano più quadrata di uno spaccalegna e si ostina a giocare dal parcheggio del circolo: non dico Agassi, ragazzo, ma fai un passo verso il campo, sennò le gambe te le consumi prima dei 25 anni! Intanto, se Djokovic continuerà a dimagrire, diventerà una schermografia, e Murray col dritto è tornato a essere più falloso del fratello Jamie. Tutti a criticare la Kerber, che magari è davvero indegna di essere la numero uno e certamente sta lì perché le altre si sono autoeliminate: ma questi due cos’hanno combinato, nel 2017? Sono passati da supereroi a spazzatura nel giro di qualche mese, adesso sembrano due scappati da casa. Che Dio ci mantenga in salute Rafa e Roger: perché non so voi ma io, con Ramos in finale nei 1000, Cuevas e quegli altri, non credo reggerò a lungo. Goffin, dite? Sarà carino, d’accordo, ha quel rovescio che è una carezza del Signore ma è più leggero di mio figlio di un anno e mezzo e si spaventa se gli fai “buu!” dietro le spalle: come puoi vincere, con quella flemma da sacrestano? E poi, che diamine: a uno gli è morto il nonno, l’altro ha nostalgia della fidanzata, Nishikori è come Krajicek che si infortunava solo all’idea di giocare a tennis, Wawrinka si sveglia quattro settimane l’anno, la NextGen per ora è una bella operazione di marketing vacua come un intervento di Renzi in direzione PD e io mi sto facendo degli sbadigli clamorosi, con o senza il magnum di nebbiolo.
Hemingway, che era un vecchio alcolizzato, diceva «write drunk, edit sober». Di correggere domani mattina, però, io non ne ho proprio voglia. Inizia il torneo del Foro Italico e io passerò la settimana a piantare quaranta metri di santoreggia. A mano, non so se rendo l’idea.
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