Soltanto Yevgeny Kafelnikov, tra i tennisti russi, ha vinto più partite di lui. Marat Safin e Nikolay Davydenko hanno raggiunto vette più alte, ma non hanno avuto la costanza e la longevità di Mikhail Youzhny. Anzi, il “Colonnello” Youzhny. Non sarà ricordato per un colpo in particolare, forse per quel clamoroso successo in Coppa Davis nella finale del 2002, match decisivo, contro Paul Henri Mathieu. Ma nessuno potrà dimenticare la sua esultanza dopo ogni vittoria. Saluto militare, dedicato a papà Mikhail Sr., ex colonnello dell'esercito sovietico, scomparso due mesi prima di quella storica finale. Colonnello Youzhny ha detto basta, a 36 anni di età, con un pizzico di sfortuna. Avrebbe potuto battere Robert Bautista Agut, ma gli è girata male qualche palla e ha lasciato spazio allo spagnolo. Poteva essere la vittoria numero 500, invece si è fermato a un passo dalla cifra tonda. 499 vittorie è un po' come uscire con 99 alla maturità, oppure non intascare la lode all'università. La metafora regge, perché Mikhail – se escludiamo quel successo in Davis – ha sempre mancato l'exploit da leggenda, che lo avrebbe consegnato alla memoria mainstream. Invece sarà ricordato soprattutto dai fanatici, quelli che amavano il suo tennis pulito e un rovescio tanto particolare nella gestualità, quanto efficace. Cristopher Clarey, sulle colonne del New York Times, lo descrisse come un rovescio "a una mano e mezza". Mikhail ha avuto la sfortuna (o privilegio, per dirla con Del Potro) di giocare in un'epoca di fenomeni. Senza di loro, probabilmente, avrebbe vinto di più. “Comunque posso dire di aver avuto una grande carriera – racconta – non avrei mai pensato di poter giocare fino al 2018, peraltro ad alto livello. Sono stato uno dei più giovani a entrare tra i top-100 ATP. Posso dire di essere stato un professionista, fino all'ultimo”. Forse avrebbe meritato un addio più solenne, ma chiudere senza squilli di tromba è più in linea con il suo carattere.