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Riccardo Bisti
21 September 2018

Il Colonnello è diventato un Generale

Si è chiusa a San Pietroburgo la carriera di Mikhail Youzhny. 20 anni ad alti livelli, sfidando (e qualche volta battendo) tutti i più forti. Classe, tenacia e coraggio hanno contraddistinto la carriera del russo, figlio di un ufficiale dell'esercito sovietico. La sua vittoria in Coppa Davis, nel 2002, ha rappresentato qualcosa di speciale per il suo Paese.

Soltanto Yevgeny Kafelnikov, tra i tennisti russi, ha vinto più partite di lui. Marat Safin e Nikolay Davydenko hanno raggiunto vette più alte, ma non hanno avuto la costanza e la longevità di Mikhail Youzhny. Anzi, il “Colonnello” Youzhny. Non sarà ricordato per un colpo in particolare, forse per quel clamoroso successo in Coppa Davis nella finale del 2002, match decisivo, contro Paul Henri Mathieu. Ma nessuno potrà dimenticare la sua esultanza dopo ogni vittoria. Saluto militare, dedicato a papà Mikhail Sr., ex colonnello dell'esercito sovietico, scomparso due mesi prima di quella storica finale. Colonnello Youzhny ha detto basta, a 36 anni di età, con un pizzico di sfortuna. Avrebbe potuto battere Robert Bautista Agut, ma gli è girata male qualche palla e ha lasciato spazio allo spagnolo. Poteva essere la vittoria numero 500, invece si è fermato a un passo dalla cifra tonda. 499 vittorie è un po' come uscire con 99 alla maturità, oppure non intascare la lode all'università. La metafora regge, perché Mikhail – se escludiamo quel successo in Davis – ha sempre mancato l'exploit da leggenda, che lo avrebbe consegnato alla memoria mainstream. Invece sarà ricordato soprattutto dai fanatici, quelli che amavano il suo tennis pulito e un rovescio tanto particolare nella gestualità, quanto efficace. Cristopher Clarey, sulle colonne del New York Times, lo descrisse come un rovescio "a una mano e mezza". Mikhail ha avuto la sfortuna (o privilegio, per dirla con Del Potro) di giocare in un'epoca di fenomeni. Senza di loro, probabilmente, avrebbe vinto di più. “Comunque posso dire di aver avuto una grande carriera – racconta – non avrei mai pensato di poter giocare fino al 2018, peraltro ad alto livello. Sono stato uno dei più giovani a entrare tra i top-100 ATP. Posso dire di essere stato un professionista, fino all'ultimo”. Forse avrebbe meritato un addio più solenne, ma chiudere senza squilli di tromba è più in linea con il suo carattere.

LE RAGIONI DELL'ADDIO
Ha annunciato l'imminente ritiro un paio di mesi fa ad Atlanta, dopo aver vinto un match anonimo, davanti a pochissime persone. Ha sentito di farlo, giusto così. Per anni, Youzhny ha effettuato la preparazione invernale in Thailandia. Quest'anno, invece, ha scelto Marbella, Spagna, insieme al suo fisioterapista e al medico. “Non avevo avuto buoni risultati, ma mi allenavo ancora. Sentivo di poter fare ancora qualcosa di buono. Ma dopo Wimbledon mi sono reso conto di aver perso troppi match combattuti. Anche durante le partite avevo la sensazione di non essere solido come avrei voluto. Per me è stata dura, troppi alti e bassi ed era dura recuperare prima del match successivo. Questa è stata la prima ragione della mia scelta. La seconda è che pensavo ai miei figli, alla mia famiglia. Non voglio che i miei figli siano costretti a vivere la mia vita. Penso che adesso sia io a dover vivere la loro”. Per 31 volte, Youzhny ha salutato il pubblico dopo aver battuto un top-10. Per dieci volte, ha sollevato un trofeo. Per tredici anni di fila, dal 2002 al 2014, ha chiuso l'anno tra i top-50 ATP. Avrebbe meritato di giocare almeno una finale Slam, ma si è incagliato per due volte a un passo dal traguardo, entrambe allo Us Open. Pochi rimpianti: nel 2006 è stato bloccato da un arrazzato Roddick, nel 2010 da Nadal. Che gli vuoi dire. Ma in un paese come la Russia, in cui le Olimpiadi valgono molto più di uno Slam (Elena Dementieva dixit), ha vinto l'unico match che davvero contava. Ad appena 20 anni, giovane caporale dell'Armata Rossa tennistica, ha rimontato due set di svantaggio a Mathieu, sotto gli occhi di Boris Eltsin, regalando alla Russia la prima Davis della sua storia.

UN UOMO GENEROSO
“Mi chiedono ogni giorno di quella partita - ricorda Youzhny – la gente ricorda tutto, le mie emozioni e quello che significava per il popolo russo. Avevamo una buona tradizione, ma non avevamo mai vinto la Coppa Davis. Quel giorno, molte persone hanno guardato il tennis per la prima volta”. Il senso della patria è sempre stato forte, a casa Youzhny. E non c'è da sorprendersi per il comportamento avuto con il connazionale Evgeny Donskoy, che qualche anno fa ha iniziato a viaggiare con lui e lo storico coach-papà Boris Sobkin. A parte le spese di viaggio per Sobkin, non hanno chiesto un rublo a Donskoy. “Quando sono entrato tra i top-100 gli ho detto che non si poteva andare avanti così, che avrei potuto dare qualcosa almeno a Boris – dice Donskoy, attuale n.4 russo – poi mi è sempre stato vicino quando ho avuto problemi con la mia famiglia. Mi diceva sempre che avrebbe potuto aiutarmi, perché sapeva che ero a corto di fiducia. Due settimane dopo, ho battuto Federer”. Come detto, Youzhny ha incrociato spesso le racchette di Federer, Nadal e Djokovic. Il bilancio non è entusiasmante: 7 vittorie e 37 sconfitte. Però, intanto, li ha battuti tutti tranne Federer. C'è andato vicino un paio di volte, ma alla fine è sempre uscito sconfitto, in ben 17 occasioni.

UNA SCOMMESSA VINCENTE
“Non saprei dire chi è il più forte. Tutti i match sono diversi, alcuno sono stati fantastici. Di certo non ho incrociato i migliori del mondo per 1-2 anni, ma per tutta la mia carriera”. I tanti soldi guadagnati e la stima raccolta nello spogliatoio sono il giusto premio a una filosofia vincente. “Se vuoi davvero fare qualcosa, e dedichi il 100% del tuo tempo a quell'obiettivo, avrai una chance che il tuo investimento venga ripagato”. E pazienza se la vittoria numero 500 non è arrivata. “In fondo non importa. Non ho mai giocato una finale Slam, e nemmeno una semifinale in un Masters 1000. Ci sono tante cose che non ho fatto nel tennis”. Però ha ottenuto la cosa più importante: il rispetto del suo coach Boris Sobkin, che ha scommesso su di lui sin dal 1993, quando tre maestri lo avevano già etichettato come “pazzo”. Ma vide in quel bambino una volontà estrema che cozzava con una tecnica rivedibile. Allora ha iniziato un progetto che mirava al lungo termine, al professionismo, non certo alle coppette dei tornei junior. “E qualche anno dopo gli ho detto che ormai non importava più se vincesse o perdesse – dice Sobkin – non era più un soldato: ormai era diventato un generale”. Da allievo e maestro, oggi sono soci. Andranno avanti insieme per qualche progetto. “Nel 2010 ho iniziato a collaborare con una scuola tennis in Siberia: a fine anno, trascorrevo 5-6 giorni lì per palleggiare con i ragazzi. Oggi, alcuni di loro puntano a diventare professionisti. È interessante. Inoltre lavorerò in una scuola tennis in Australia”. E magari nascerà un nuovo Colonnello. Papà Mikhail Sr. ne sarebbe orgoglioso.

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