Basta, non ne posso più.
Io amo gli arbitri e per questo devo ringraziare mio figlio, il grande Seba, che oggi ha nove anni e mezzo e che, ahimè, da buon italiano è un discreto malato di calcio. Al momento pratica il basket con mia segreta gioia, ma ammetto che si perde poche partite di pallone alla tv e, come prodotto esemplare della nostra consueta cultura italiana, è un
fantastico commentatore. D’altra parte, noi siamo un popolo di
fantastici commentatori. Esercitando perciò con amore immenso il ruolo di padre (e, mi si passi il termine privo di altezzosità, di educatore) gli faccio spesso compagnia in queste sue maratone calcistiche: per quanto a me, del calcio, importi poco o nulla.
Faccio un passo indietro. Sono stato ragazzo anch’io. E anch’io sono stato adolescente, ribelle e indisciplinato. Anzi, per onestà, non posso proprio eludere dal carattere fumantino che per molto tempo ha caratterizzato, e anche probabilmente limitato, i miei stessi traguardi professionali. Non sono un santo, né un moralista ma mi reputo una persona intelligente. Riflessiva. E se volete, per questo, giudicatemi pure presuntuoso.
Ma accadde che, dopo aver mandato a cagare arbitri, istituzioni, ingiustizie e tutti quelli che ce l’avevano con me, un momento chiaro e netto me lo ricordo: quando giochi nel circuito tutto l’anno, inevitabilmente stai negli alberghi, vivi i contesti, condividi gli spazi comuni sia con gli altri giocatori e allenatori, sia con gli arbitri. Coi quali, essendo bene o male sempre gli stessi, dopo un po’ arrivi, a seconda della simpatia o della confidenza che hai instaurato, a diventarne perfino amico, o quantomeno un discreto conoscente. E con quello con cui evidentemente s’era creata una speciale sintonia, sarà per amore dei
riff di Keith Richards o per la passione delle trattorie nostrane, una sera ci andai a cena.
Parlammo molto quella sera. E un passaggio mi rimase ben scolpito nella mente.
«Io mi piglio solo insulti. Sempre». Nella sua franchezza, volendo anche banale e qui sicuramente fin troppo riassunta, si nascondeva un’immensa e triste verità. Ci riflettei molto, quella notte.
Rimanendo nel campo del mio sport, e tenendo conto del fatto che i livelli delle competizioni che disputavo non erano tali da prevedere sempre l’aiuto dei giudici di linea e men che meno della tecnologia moderna (occhio di falco, paragonabile al VAR in campo calcistico),
immaginatevi quanto fosse tremendo dover giudicare minuscole palle da tennis che viaggiano oltre i 200 km/h e che cascano a pochi millimetri dalle righe, magari quelle più lontane dalla seggiolina arbitrale, col sole negli occhi e i riflessi di quel pino maledetto che fa il suo bel gioco d’ombre proprio in quell’esatto filo di spazio. E in quella frazione di secondo tu, comune mortale, devi chiamare.
Out!
E proprio quella chiamata, a seconda del punteggio, a volte può andare a definire l’esito finale dell’intera partita, con la consapevolezza che qualsiasi decisione prenderai, sarai sempre e comunque insultato a squarciagola da colui che il punto l’ha perso. E, successivamente, additato come unica causa di sconfitta da parte del presunto danneggiato.
L’arbitro. Che mestiere di merda. Ci puoi mettere tutto l’impegno di questo mondo, ma per qualcuno rimarrai il solo motivo della sua sconfitta. A vita. Provateci voi. Io ci ho provato, amatorialmente, e vi posso assicurare che è veramente un gran casino.
Ecco: poco per volta, ho deciso di perseguire un’altra strada,
quella della relatività, del senso di giustizia e di superiorità sportiva, nell’essenza esatta del termine. Gli arbitri sono uomini e come tali sbagliano. E, come tali, sono i primi a subirne le proprie pene intime e personali quando poi, ad esempio tramite un replay, si renderanno conto dell’errore commesso. Ma solo dopo averlo commesso.
Ho deciso di iniziare a pensare che, se fossi stato più forte, avrei semplicemente vinto prima. Non ci arrivavo nemmeno, al punto in cui una singola chiamata poteva decidere l’intera sorte della partita. Se gli dai 6-2 6-2, non stai a recriminare sulla chiamata dubbia sul 6-5 al terzo, 30 pari. Perché neanche ci arrivi, a quel punteggio. Se hai preso un break per una svista, avrai tutti i punti e i game successivi per mostrare con chiarezza la tua eventuale superiorità.
Se meritavi di stare fra i primi giocatori del mondo, a quarant’anni non dai la colpa a tutti gli arbitri della tua carriera che, secondo te, ti hanno impedito di vincere qualche partitella in più. Chiamatela teoria della verità assoluta o della filosofia vincente. Chiamatela come vi pare.
Massimo Ocera, torinese, classe 1982, è stato una promessa del tennis italiano. Ex numero 380 del mondo, tra le sue vittime c'è un giovane Juan Martin del Potro, in una bella storia che ha raccontato alla nostra rivista.