di Max Grassi
E' una Milano insolitamente assolata, quella che fa da cornice al nostro incontro con la signorina Pennetta. Una città che la 31enne brindisina conosce molto bene per averci vissuto tre anni, agli esordi da “pro”, quando ragazzina venne alla corte di Barbara Rossi e Maurizio Riva per imparare a muovere i primi passi sul circuito.
“Ho dei bellissimi ricordi di Milano. Mi ha insegnato cosa vuol dire sacrificarsi per ottenere un risultato. Ogni giorno mi facevo ore di metropolitana e questo mi ha aiutata a crescere”.
Nel 2013 Flavia, prima a New York, dove ha ottenuto il suo miglior risultato Slam (semifinale), poi a Cagliari, dove ha vinto la sua quarta Fed Cup, è tornata ad assaporare il profumo delle grandi imprese. E non era per niente scontato visto che, oltre all’operazione allo scafoide del polso destro dell’agosto 2012, ha dovuto anche ricostruire il rapporto con il coach, dopo l’addio di Gabriel Urpi. Salvador Navarro “aveva un compito difficile, sostituire il tecnico con cui sono cresciuta. Lui è un ‘talebano’. Detta le regole e non si sgarra. Punto. E’ riuscito a mettere in riga anche mio padre”.
Ride spesso, Flavia. Segno che la sua vita le piace e la soddisfa. Si è lasciata alle spalle le nubi cariche di pioggia del suo passato e può andare incontro al futuro con lo sguardo sicuro di chi sa di avere già superato le cime tempestose. “Quando si ricerca troppo qualcuno che non c’è più poi si finisce per perdersi” ci ha confidato. A lei è successo. Ma oggi non ha più pensieri che l’assillano e può concentrarsi semplicemente su quello che ama: giocare a tennis.
- Due anni fa hai dato alle stampe un’autobiografia molto diretta e autentica. Quanto ti è costato emotivamente metterti in gioco?
“Emotivamente poco. Certo mi sono ritrovata a scavare nel mio passato. Però, ad essere sincera, è stato bello perché ho ritrovato tanti episodi che pensavo di avere scordato. Semplicemente non ci fai più attenzione. Ripensi a dei momenti, frammenti di vita, e ti dici: ‘mamma mia che ho fatto!’. E questo ti aiuta anche nelle scelte che ancora devi fare. E’ un po’ come fare un’analisi. Solo che non devi pagare (ride, ndr.)”.
- Racconti tanto dei tuoi amori. Neanche un po’ d’imbarazzo?
“Ma no, perché alla fine le mie esperienze sono quelle di tante ragazzine di sedici anni. Ok, noi tenniste siamo famose. Però famose tra virgolette perché siamo persone normali. I primi amori, le prime delusioni, son sempre quelle, comuni a tutti. Che io sia una giocatrice di tennis o meno”.
- Sul nostro giornale abbiamo recentemente scritto che gli straordinari traguardi del nostro tennis rosa sono figli del primo grande ostacolo superato: quando nell’agosto del 2009 hai rotto il muro delle top 10.
“Sicuramente è stato un input molto importante. Sono certa che ha spronato le altre. Alla fine, il nostro è un continuo rincorrersi. Una fa un risultato, l’altra cerca di migliorarlo. Tra di noi è così”.
- Quest’anno hai chiuso al numero 31 del ranking Wta. Un posto dopo c’è la canadese Eugenie Bouchard che è nata lo stesso tuo giorno (25 febbraio) ma dodici anni prima.
“Non lo sapevo. Ma perché me l’hai detta ’sta cosa, che mi deprimo (ride, ndr.)”.
- Perché volevo sapere, da veterana quale ora sei, cosa pensi delle nuove leve e come è cambiato il circuito in questi tuoi 14 anni di professionismo?
“Ah, è cambiato molto. Ho vissuto un primo cambio generazionale e adesso ce n’è uno ancora nuovo. Il gioco è diventato molto più fisico. Prima c’era più varietà. Anche le nuove leve hanno un tipo di gioco molto lineare, molto pulito. Molto simile al mio, a dire la verità, perché anche io non è che poi abbia tutte queste variabili. Il nome che tu hai fatto - la Bouchard - arriverà molto lontano. Avrà un’alta esposizione mediatica perché è anche molto bellina, oltre che di aspetto anche nei modi. Quindi, non dico che sarà la prossima Sharapova, ma quello è il suo cammino”.
- Condividete anche questo tu e lei allora, oltre che il compleanno...
“Dici? Solo che lei è bionda e io mora (ride, ndr.)”.