Marco Caldara
07 April 2017

La prima retrocessione non si scorda mai

Viaggio indietro nel tempo per ritrovare l’ultima sfida di Coppa Davis fra Italia e Belgio, uno dei capitoli più grigi nella storia della nazionale. Furono i belgi, nel 2000 a Mestre, a sbattere per la prima volta l’Italia nella serie B del tennis mondiale, al termine di un week-end rocambolesco, col crollo del leader Gaudenzi, le lacrime in diretta tv di Sanguinetti e i miracoli di quei due fratelli col volto da bambini.
Nella storia della Coppa Davis ci sono nove nazioni che hanno vinto più titoli dell’Italia, e altre cinque che vantano un’Insalatiera, come quella conquistata nel 1976 a Santiago del Cile da Adriano Panatta, Corrado Barazzutti, Paolo Bertolucci e Tonino Zugarelli. Eppure, fino al 2000 l’Italia ha condiviso con la Repubblica Ceca un piccolo record, uno di quelli che nel mondo del calcio italiano riscuotono più successo (e sfottò): erano le uniche due squadre a non aver mai lasciato il Gruppo Mondiale, evitando sempre la Serie B. Oggi il primato non esiste più, perché i cechi sono retrocessi nel 2005, mentre all’Italia era toccato nel 2000, in un infausto week-end di Mestre, iniziato con i migliori auspici contro un Belgio che non faceva particolare paura ma chiuso con le lacrime in diretta tv di Davide Sanguinetti, distrutto al microfono di Rai Tre dopo aver rimesso in piedi un match già perso, e poi averlo perso sul serio, condannando il tricolore alla prima retrocessione della propria storia. Quell’Italia era la stessa squadra della finale di Milano di due anni prima, ma il crac alla spalla di Gaudenzi aveva rotto l’incantesimo. L’anno dopo la finale gli azzurri si salvarono per un soffio nello spareggio contro la Finlandia a Sassari, con Gaudenzi che recuperò da 2 set a 1 sotto nel terzo singolare contro il modesto Ville Liukko, mentre l’anno dopo ancora la B diventò inevitabile, in un clima scosso da una Federazione da poco commissariata e qualche polemica fra il ct Paolo Bertolucci, che metteva la Davis come priorità assoluta, e il nuovo commissario Luigi Tronchetti Provera, che invece guardava con più attenzione a Olimpiadi ed elezioni.

A febbraio arrivò un 4-1 senza appello contro la Spagna, sulla terra di Murcia, mentre nello spareggio per restare nel Gruppo Mondiale agli azzurri toccò il Belgio, dal 21 al 23 luglio sulla terra del Green Garden di Mestre. Da una parte Gaudenzi, Sanguinetti, Nargiso e Furlan; dall’altra i giovani fratelli Cristophe e Olivier Rochus, 22 anni il primo e 20 il secondo, più Filip Dewulf, incredibile semifinalista al Roland Garros tre anni prima ma poi costretto a un’operazione alla caviglia che non gli avrebbe più permesso di rientrare nel giro degli Slam, e il doppista Tom Vanhoudt. Quest’ultimo giunto in Veneto a sorpresa dopo il no di Xavier Malisse, uno dei migliori giovani al mondo e allenato a quel tempo da Umberto Rianna, che ricusò gli accordi economici presi qualche tempo prima con la Royal Belgian Tennis Federation, rifiutando la convocazione. Senza di lui, con un solo top-100 fra gli avversari e con mille dubbi sulle condizioni di Dewulf, l’Italia sembrava nettamente favorita, a tal punto che al sorteggio della vigilia fece scalpore una frase-autogol di Nargiso, che disse di augurarsi di scendere in campo per il doppio sull’1-1.

Oggi gli darebbero del “gufo”, come Lorenzi e Barazzutti hanno fatto a Charleroi con un Seppi che ha detto che preferirebbe affrontare Goffin sull’1-0 e non sullo 0-1, invece Diego indovinò il punteggio, anche se la vittoria che dava per scontata era quella di Gaudenzi, che il ct degli ospiti Gabriel Gonzalez – argentino di mamma marchigiana e moglie belga – definì «il 50% della squadra». Non si sarebbe mai aspettato di vedere “Gauda” giocare un match disastroso contro un Olivier Rochus al debutto in un “live rubber”, e arrendersi 6-2 7-5 6-3 in due ore e mezza. Nemmeno un vantaggio di 5-3 nel secondo set, o i crampi del piccolo folletto belga sul 5-2 al terzo, bastarono a scuoterlo. Non sembrava lui: lento, falloso, poco reattivo, incapace di costruire gioco. Terribile. Ma per fortuna che Sanguinetti si svegliò – anche se un tantino in ritardo – col piede giusto, dimenticandosi la sua allergia cronica alla terra battuta e pure il set e break di vantaggio lasciato a Dewulf. Col passare dei minuti lo spezzino trovava diritto e servizio ad assistere il solito rovescio, ribaltava da 3-5 il tie-break del secondo set e poi restava a galla nel terzo prima di mettere il turbo, infilare nove game consecutivi e chiudere a una manciata di minuti dalle 22, 1-6 7-6 7-5 6-0, con un caldo da Venezia in campo e un freddo da Belgio sugli spalti, ancora scossi dal crollo di Gaudenzi. «La sconfitta più brutta della mia storia azzurra – disse il faentino –, mi dispiace dieci volte più che in torneo. Sono preoccupatissimo, non tanto per il punteggio ma per le mie condizioni. Non so che mi succede. Il doppio? Ora come ora mi butterei nel fiume, non potrei giocare neppure a biliardino».

Un messaggio fin troppo chiaro per Paolo Bertolucci, anche se all’indomani pareva già tutto dimenticato: Gaudenzi regolarmente in campo a fianco di Nargiso, pubblico di nuovo fiducioso grazie a un 1-1 che era quasi diventato insperato, e dall’altra parte della rete l’altro Rochus – Cristophe – e lo specialista Tom Vanhoudt, doppista discreto ma non irresistibile. Ma il duello di Mestre si rivelò presto l’occasione perfetta per il Belgio per tornare a vincere un doppio dopo 4 anni e 8 incontri, e mettere a nudo i problemi di una coppia azzurra ottima ma arrangiata, troppo legata al rendimento dei singoli. Gaudenzi continuò sul filone del singolare, prendendo un break per set, Nargiso da solo non riuscì a fare miracoli e il punto sicuro diventò sicuro (e pure facile) per gli ospiti, a segno con un triplice 6-4. «Ho dato tutto ciò che avevo – disse “Gauda” – ho fatto schifo ancora, la mia condizione è questa. Ho risposto poco e male, e se su ogni palla-break affossi la palla, diventa una catena dalla quale è difficile uscire». Era talmente scosso da chiamarsi addirittura fuori di nuovo, dal quarto singolare. «Se Renzo (Furlan, ndr) sta meglio di me e se la sente di giocare, io mi tolgo più che volentieri e gli lascio il posto». Una seconda ammissione di debolezza che rendeva gli scenari molto più grigi, ma per l’Italia c’era ancora modo di sperare.

Si trattava pur sempre di battere i numeri 114 e 140 del mondo, in grande fiducia ma comunque non irresistibili. Però serviva un Sanguinetti al 100% e un Furlan in grado di ripagare la scelta – discussa – di Bertolucci di chiamarlo malgrado in quel momento fosse solo il 29esimo italiano del ranking ATP, sceso al numero 465, non giocasse un match 3 su 5 da due anni e mezzo e una sfida in Davis dalla semifinale del ’97, quando il suo KO contro Bjorkman nel terzo singolare consegnò la finale alla Svezia. Non arrivarono né uno né l’altro, ma un terzo singolare thriller da 4 ore e 11 minuti, con una carica emotiva pazzesca e un Sanguinetti in grado di resuscitare di nuovo, come già al venerdì, ma stavolta quando aveva veramente un piede e quattro dita nel baratro, sotto 6-2 7-5 5-2. Con un coraggioso rovescio lungolinea salvava un primo match-point, poi altri due sul 4-6 del tie-break, e dal nulla ridava linfa al suo tennis, al pubblico, ai compagni in panchina, a Bertolucci, all’Italia, alla possibile salvezza. Vinceva terzo e quarto set, col belga che pareva una statua in mezzo al campo, e volava in scioltezza sul 2-0 al quinto, cancellando tutte le paure. Dalla notte al giorno, da nero a bianco, da salita a discesa, spinto da un Diego Nargiso in versione ultras da stadio, pronto a incitarlo come un matto a ogni singolo punto.

Ma quel peggio che sembrava ormai alle spalle doveva in realtà ancora arrivare. E arrivò, poco più tardi, con la rimonta di Rochus, quarto e quinto match point salvati da “Dado” sul 4-5, prologo del crollo definitivo di due game più in là. Prima un doppio fallo, poi un rovescio in corridoio, e addio Serie A per la prima volta nella storia dell’Italia. Avesse vinto, il singolare decisivo sarebbe toccato a Renzo Furlan: quello vero era morto tennisticamente tre anni prima, eppure a Mestre serpeggiava un certo ottimismo, Dewulf non sembrava affatto imbattibile. In realtà i due giocarono sul serio, a punteggio acquisito, e vinse il belga 7-5 6-2. Ma per entrambi la sfida era finita ancora prima di iniziare, per il belga con la festa, per Renzo con le lacrime di Sanguinetti e la delusione per una retrocessione storica. La sintesi, ancora una volta, la diede Gaudenzi e il suo mea culpa. «Ho fatto schifo per tre giorni quando avrei dovuto dare il meglio di me, e la colpa è solo mia. Ma non ho nulla da rimproverarmi: se avessi passato le ultime due settimane in Sardegna a prendere il sole allora il pubblico potrebbe spararmi contro. Però avrei preferito fare venti primi turni di fila a livello ATP, piuttosto che vedere l’Italia scendere in Serie B. È il punto più basso per la nostra squadra, ma la verità è che la rosa è sempre limitata ai soliti nomi. Se ci fosse un ventenne che mostra coi risultati di valere questa maglia, sarei il primo a farmi da parte».

All’indomani partirono i processi, al leader caduto Gaudenzi, a capitan Paolo Bertolucci per la scelta di giocare sulla terra invece che sul veloce o addirittura sull’erba (sembra incredibile, ma al tempo pareva un’opzione concreta), convocando magari Gianluca Pozzi che aveva appena fatto miracoli sui prati inglesi e al tempo era l’unico top-50 italiano, e affiancandogli Sanguinetti o magari l’italo-belga Tieleman (altro specialista dell’erba), più un doppio rodato come Bertolini/Brandi. E pure alla Federazione Italiana Tennis. Dalle pagine della Gazzetta dello Sport, il compianto Candido Cannavò (allora direttore della rosea) tuonò che la Federazione andasse abolita e che fosse necessario ripartire da zero, mentre Adriano Panatta – e non solo – spiegò la sconfitta con l’assenza di ricambi dovuta alla perdita di un paio di generazioni di giocatori, attribuendo buona parte delle colpe a Tomas Smid, l’allora direttore del Centro Tecnico di Cesenatico. «Non è mettendo Barazzutti al posto di Bertolucci (come sarebbe successo di lì a poco, ndr) che si risolvono problemi», scriveva Rino Tommasi sempre sulla Gazzetta, e col senno di poi aveva ragione. L’Italia avrebbe avuto bisogno di ben undici anni – compreso uno in Serie C – per riabbracciare il World Group, e a passi lenti si avvicina al futuro con qualche dubbio di troppo, un quartetto di over 30 (o quasi, Fognini ne farà 30 a maggio) che il meglio della propria carriera l’hanno già superato, e dei ricambi che non sembrano – o forse non sono – allo stesso livello. L’importante, se proprio una Mestre-2 diventerà impossibile da evitare, è almeno provare rimandarla il più a lungo possibile.
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