Il problema dello shot clock risiede nella sua natura soggettiva: non si possono mettere sullo stesso piano scambi di 30-40 colpi e un ace. Nel primo caso, è legittimo concedere qualche secondo in più per recuperare, mentre nel secondo è ridicolo che un giocatore chieda l'asciugamano tra un punto e l'altro. E allora entra in ballo la sensibilità del giudice di sedia: è lui a far partire il count-down, e lo fa a sua discrezione. È dunque ovvio che entra in ballo il buon senso. In altre parole, ci vuole rigidità verso i giocatori che perdono deliberatamente tempo, mentre è giusto avere un po' di indulgenza dopo uno scambio duro. Ma chi decide se uno scambio è stato sufficientemente faticoso? Magari per un arbitro lo è stato, per un altro no. Il concetto di shot clock nasce nel basket, dove la squadra deve tirare a canestro entro 24 secondi. O meglio, una singola azione non può durare più di 24 secondi. Una situazione chiara, oggettiva. Nel tennis si vuole portare un calcolo oggettivo laddove ci sono situazioni molto diverse tra loro. Per questo, crediamo, la faccenda sta destando più di una perplessità. Alle Next Gen Finals non ci sono stati problemi, ma si giocava indoor, su campi rapidi, in un contesto particolare. In uno Slam, con una miriade di punti e dollari in palio, potrebbe anche essere un problema. Perché se è vero che Nadal ha il vizietto di prendersi qualche secondo di troppo, ha ragione quando dice che è diverso giocare con 15 gradi, o nel clima ovattato di un palazzetto, oppure con 40 gradi all'ombra. L'Australian Open sarà un banco di prova interessante perché si gioca spesso in condizioni estreme, anche se nelle qualificazioni ci si limiterà agli incontri al meglio dei 3 set. Regolamentare è giusto, ma trovare una soluzione che accontenti tutti sarà molto difficile.