FATICHE TORINESI
La non-carriera di questo ragazzone è un’ode al non fatto e al proibito: tutto ciò che andava accuratamente evitato per perdersi per strada, c’è da stare certi che abbia trovato il modo di farlo. A raccontarsi, trova del tutto normale ammettere che sì, «da ragazzo vincevo facile contro Starace, Di Mauro. Anche contro Paolo Lorenzi». Quel Lorenzi, Paolo, la testa di serie negli Slam, quello che mette paura a Murray agli Us Open e vince i tornei Atp. L’archivio conferma: era il master del Futures Italy 2 del 1999, un doppio 6-4. A ripensare a quei tempi sorride con un filo di amarezza, scoprendo un diastema alla Mladenovic: «Lui però è un fenomeno, eh. È l’antitennis, ma è un fenomeno. Che ti devo dire, adesso un po’ mi dispiace. Avessi avuto la testa di un altro e non la mia, o anche solo avessi avuto me stesso di oggi a farmi da coach, mi sarei raddrizzato a bastonate». L’avventura di Stefan Pircher con il tennis, per il vero, stava per finire al suo inizio: dal club sotto casa, dove i genitori gestivano un albergo, arrivò a portarselo via Luigi Bertino, conosciuto grazie agli stage di Dennis Van Der Meer organizzati a Merano dal mitico Luciano Botti. Bertino, uno dei coach storici del PTR, lo osservò, capì tutto, lo impacchettò e lo spedì in quello che, allora, era l’atipicissimo cervello del tennis italiano di alto livello: Moncalieri, piccola cittadina nebbiosa contigua a Torino. Solo che, al primo giorno in Piemonte, «mia madre, che mi aveva regalato uno dei primi telefoni cellulari, chiamò e si mise subito a piangere. Tornai immediatamente a casa, non potevo sopportare che stesse così male: solo che lei mi disse che no, non era giusto farmi smettere solo perché mi voleva con lei. Il giorno dopo feci di nuovo Parcines-Moncalieri e rimasi lì un paio di anni, ad allenarmi». Allenarsi, insomma. Fare fatica, come ricorda Ljubicic, non era esattamente tra le priorità di Stefan Pircher. E se schifava i cesti, anche i tornei li lasciava volentieri agli altri: «Un giorno Bertino mi obbligò a iscrivermi a un tabellone. E non voleva neanche che prendessi un taxi, dovevo assolutamente muovermi coi mezzi pubblici. Mi diede le indicazioni per arrivare al circolo, il problema è che io mi perdevo dappertutto: ero un ragazzino alto uno e quaranta, in una città grande, che parlava una lingua sconosciuta. Le uniche cose che sapevo dire in italiano erano “Mi chiamo Stefan Pircher” e “ho 14 anni”. Chiaramente non andai a giocare. La sera mi chiese come fosse andata e io, dopo aver cercato di inventarmi mille storie, confessai di essere rimasto in stanza». Alle Pleiadi di Moncalieri, a inizio anni Novanta, si allenavano davvero tutti: Camporese, Caratti, Furlan, Mordegan, con Riccardo Piatti a coordinare il gruppo. C’era anche Corrado Borroni, rimasto nella memoria per due cose, l’essere stato quel tizio dal rovescio magico che batté Kafelnikov a Roma e, nell’ambiente, quello «che tutti chiamavano il capoccione, perché aveva un testone enorme: ovviamente a lui quel soprannome non piaceva. Ma io ero appena arrivato, conoscevo solo il tedesco e non avevo capito che fosse un termine offensivo. Un giorno mi rivolsi a lui, che era più grande di me di cinque anni, chiamandolo “Ehi, capoccione!” Meglio non dire come finì».