Vita da doppista

Soares e Melo, Roger e Cabal: per molti appassionati, assoluti sconosciuti. Invece sono i protagonisti di una nobile disciplina un po’ decaduta. Ma che non deve morire. Ladies & gentlemen, The Double.
A bordocampo, col sole impegnato a giocherellare dietro le nubi galoppanti dall’entroterra e Bruno Soares pronto ad affondare l’ennesimo dritto nel fianco di Kohlschreiber, buoni e cattivi pensieri si prendono a schiaffi sul cielo del Principato di Monaco. Di qua, anni di progressivo disamoramento dei campioni, rapiti dalle loro carriere votate al singolare, e gestioni sconcertanti dei maggiorenti del sindacato giocatori; di là, le memorie dei grandi, Newcombe e Roche, Lutz e Smith, McNamara e McNamee, i Woodies.

Il doppio, maledizione.

Come si è arrivati a scavare la terra sotto i piedi di una pratica nobile? Quale altra grande disciplina consente di dividere il campo e raddoppiare gli attori mantenendo intatta la nobiltà del gioco e, nel contempo, si è permessa di violentare una parte di sé? Perché ha senso (e lo ha) salvarlo?

I cattivi pensieri. Il doppio è un malato terminale, il doppio non vale niente, conta solo in Davis. Il doppio è la pensione dei singolaristi invecchiati, la scorciatoia di quelli falliti, la riserva dei minus habens tennistici. Il doppio non si vende, è un peso morto per chi organizza e finanzia tornei. Eppure, la volée bassa di dritto di Girafa, al secolo Marcelo Melo di Belo Horizonte, preso dagli esercizi sulla terrazza accanto a Nadal (spettatori: uno contro un migliaio) prova a fartela mostrare da un finalista di Wimbledon, da un Tomas Berdych, sperando che la racchetta non scavi una buca nella Roccabruna e non svegli lo spirito addolorato di Lew Hoad.

Senza gli spettatori dal vivo, il doppio è uno sport proibito: ce lo racconterà Bruno Soares che ha 33 anni, è di Belo Horizonte pure lui ma gioca con un altro: fa il paio con Alexander Peya, austriaco che voleva diventare come Muster, invece è rimasto Peya e, dopo un breve soggiorno tra i primi 100, è passato alla disciplina parallela. Insieme, si sono regalati la finale allo US Open 2013 (1). Attraversano il villaggio del Country Club coi borsoni, non li ferma nessuno. Chiedi a un gruppo di ragazzini, ammassati di fronte allo stand di un integratore alimentare firmato da Djokovic: Nole non c’è, il prodotto neanche, ma loro rimangono lì, impalati al cospetto del poster. Sperano in un’apparizione. Non uno che sappia chi siano, quei due, poco tempo fa la terza coppia migliore al mondo. È sempre tennis: “Eh, ma è doppio”.

Soares non è un reietto del singolare; semmai, uno scalognato. Si stava costruendo una carriera quando si è fracassato un ginocchio «e per due anni sono rimasto fermo. Quando sono tornato, ero sicuro che non sarei riuscito a recuperare e ricominciare a puntare ai primi 100, e poi ero cresciuto col mito di Guga: volevo giocare i grandi tornei, non le qualificazioni o i challenger. Il doppio è stata una scelta facile, per uno come me. Il passaggio? Onestamente, niente di traumatico, perché dopo qualche mese avevo già vinto due titoli (2) e fatto una semifinale a Parigi con Dusan Vemic». Ha condiviso il suo destino Juan Sebastián Cabal, che per molti è il nome di un’opera di Clive Barker, mentre a Bogotá è riconosciuto da tutti come un eroe. Nel 2011 giocò il primo torneo della vita che non fosse un challenger, invitato dall’argentino Eduardo Schwank. Era Roland Garros. Cabal, numero 100, fece l’impossibile: arrivò in finale, impresa mai riuscita a nessuno, tantomeno a un tennista colombiano (3). Lui è un altro doppista per zoppìa: «Dieci anni fa mi sono fatto male a un ginocchio, non riuscivo più a giocare, anche se ci tenevo tanto. Ho cercato di preservare il meglio per me e la mia carriera, e l’unica soluzione era il doppio».

Un doppista può sbocciare anche nel mar dei Caraibi, a Curaçao, tra le piantagioni di aloe. Jean-Julien Rojer, 18 titoli, due semifinali Slam e riflessi da gatto, è affabile, usa un buon lessico, ha studiato. Dà risposte meditate sul senso di una vita da “pro”: «Altro che facile, per me è stata durissima. Ero 218 in singolare, davo tutto me stesso ma non ero esattamente nella posizione che aveva in mente uno che sognava le auto della transportation, gli hotel di lusso, le visite alle più belle città del mondo. Peccato che il mio livello di tennis non potesse offrirmi niente di tutto questo. Scegliere il doppio fu traumatico, perché prendevo il mio mestiere sul serio. Ma dovevo ragionare: quando giocavo i due tabelloni, andavo sempre meglio in questo che in quello. Decisi di provarci».

Lontano dal business, il doppista medio vive male. «Spesso, tra noi, parliamo della difficoltà di guadagnarsi da vivere e di risparmiare per il futuro – commenta Soares -. Ognuno ha storie diverse e la quantità di soldi di cui hai bisogno varia a seconda del Paese di origine, di quanto spendi per viaggiare, di quanta gente gira con te». Un numero, raggelante benché tollerato da decenni, te lo dà: secondo lui ci sono 30, forse 40 giocatori in tutto che riescono a guadagnare da vivere decentemente, “to make a living”, cioè per fare il mestiere senza dover contare su una eredità. Quello delle paghe è un argomento ricorrente nel Council ATP, ma per ora il problema rimane lì mentre i big affettano una torta multimilionaria (4): «Noi – continua Soares – vorremmo che molta più gente potesse guadagnare per vivere con qualche agio, e non solo sfangarla. È una lotta di cui mi sono fatto carico. Spero di poter cambiare le cose». L’attivo e vincente Soares non ha il problema, bontà sua, di mangiare o pagare le bollette: nel primo quadrimestre del 2015 ha incassato centomila dollari lordi, mediamente fa oltre mezzo milione l’anno di montepremi e, a casa sua, è una piccola celebrità. Prende soldi dalle Poste brasiliane e da altri sponsor avventizi, è tanto conosciuto da sponsorizzare WimBelemdon, un’iniziativa per salvare dalla strada i ragazzi di Belém con le racchette. Bruno paga due coach e un preparatore atletico, e ne avanza ancora. Cabal non ha più giocato grandi finali, da Parigi 2011, ma qualche anno di doppio con l’amico Robert Farah, una finale a Miami e tre titoli (uno quest’anno, a Sao Paulo) gli hanno fruttato 999.000 dollari. Gira con il coach, il miracolato Jeff Coetzee (5), e ha un preparatore. Anche Juls Rojer batte cassa: «Il montepremi del doppio non basta, va aumentato, anche se lentamente è cresciuto negli anni e il merito di ciò è del nostro nuovo amministratore delegato, Chris Kermode. Ma non è sufficiente, lo dico io e lo sostengono molti miei colleghi, benché sia persuaso che stiamo andando nella direzione giusta, con il CEO che è stato nominato. Certo, è il Tour di singolare che tira la carretta e attira soldi, ma non è che per questa ragione noi dovremmo ritenerci fortunati e accettare di prendere quello che ci piove addosso. Se Tursunov dice che vivere da singolaristi tra il n. 80 e il n.100 è complicato, per noi è ancora peggio. Se non sei nei primi venti, scordati i guadagni. Le sembrano tanti, venti doppisti in tutto il mondo?»

L’inizio della fine dell’era dorata del doppio si può approssimativamente sistemare a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta. Fino ai Settanta, la categoria del doppista di professione, specialmente nella sua accezione di singolarista fallito, era costituita da un paio di membri. Tutti i grandi giocavano e vincevano, di là e di qua. Se c’era un doppista specializzato, come Frew McMillan, non veniva visto come un appestato: tirava piano, tutto lì. Ma tirava bene. Poi, la moltiplicazione dei tornei, la concorrenza globale, l’avvento del tennis professionistico e degli affari resero il gioco maschile sempre più prosciugante di energie fisiche e mentali: il doppio, giocoforza, si ammalò di assenze.

C’è una data non trascurabile, in questo processo. È il torneo di Flushing Meadows 1988, quando Tim Mayotte (best ranking: 7 in singolare, 66 in doppio) e l’allora presidente del sindacato giocatori organizzarono una conferenza stampa improvvisata nel parcheggio dello US Open (perché l’ITF, in lotta con l’ATP, non aveva concesso una sala). Divenne celebre come the parking lot conference. Attaccarono il logo dell’associazione col nastro a un leggìo ma, soprattutto, attaccarono frontalmente la gestione economica del tennis. Annunciarono che, entro poco tempo, l’ATP avrebbe organizzato un suo Tour, iniziando a incassare direttamente i soldi dello show. E così, se in quegli anni trovavi ancora John McEnroe e Stefan Edberg negli albi d’oro degli Slam in doppio, nonostante la diffusione del tennis in tivù e la sua trasformazione in superlavoro da star già conclamata, le due specialità presero a diventare pressoché alternative. Soprattutto da quando i migliori vennero praticamente obbligati a giocare tanto per vendere i tornei: presero in blocco l’abitudine di vincere quasi tutto in pochi, aumentando il monte delle partite pro capite a detrimento delle altre attività. Ecco, insomma, come poté succedere che che l’eredità culturale delle grandi coppie (McNamara e McNamee, Newcombe e Roche, Mac e Fleming, Lutz e Smith, Gottfried e Ramirez, tutti ottimi singolaristi) cedette ai contratti e alle lusinghe di una stagione sempre più lunga, omogeneizzata da superfici sempre più simili, per essere raccolta da Pieter Aldrich, Daniel Visser, David Pate, Scott Davis, Laurie Warder. Campioni (?) da Slam, signorotti evanescenti di classifiche degenerate fino a farsi insignificanti.

Ivan Dodig della santa Medjugorje, numero 6 al mondo in doppio, ex 29 in singolare, incarna la razza dei singolaristi redenti che, nelle ultime stagioni, si sono ricordati del doppio, invertendo una tendenza di moda fino al Duemila, quando si era fatto una propaggine decadente per le carriere di tennisti bolliti e di mezzi singolaristi che lo giocavano magari con frutto, ma male. Il doppio è un’arte: osservare Daniel Nestor al lavoro non farebbe cambiare idea soltanto a chi è troppo innamorato delle proprie tesi. Le classifiche più recenti testimoniano il ritorno dei tuttofare: Fabio Fognini («Dimostrazione che eccellere in singolare e doppio è dura ma non impossibile», dice Cabal) e Simone Bolelli, campioni all’Australian Open e attuali numero uno nella Race; Jack Sock e Vasek Pospisil, re di Wimbledon, o gli esperti Benneteau e Vasselin, o Granollers. Del resto, soggiunge Soares, «i singolaristi dovrebbero giocare spesso il doppio, anche se hanno spesso una programmazione serrata. Alleni parti del gioco diverse e, col nuovo formato dei nostri incontri, giochi un sacco di punti importanti: con le nuove regole, vincere o perdere è spesso una questione di centimetri, di decimi di secondo. Se io allenassi un ragazzino, certo, gli farei mantenere l’obiettivo prioritario del singolare, ma il doppio aiuta molto a completare il proprio gioco; i professionisti non sempre possono permetterselo ma, quando si può, va praticato». Le nuove regole, in effetti, sono un invito plateale a non snobbare il doppio: «Sono circa 5 anni – dice Rojer – che i giocatori di singolare stanno tornando. Succede perché ci sono più soldi in palio e perché il formato “no-ad” e il super tie-break fanno sì che le partite non durino più di un’ora e un quarto, ora e mezza». Senza volerlo, Rojer ha fatto il ritratto a Dodig: trent’anni appena compiuti e una carriera condotta su due binari. Finalista a Wimbledon 2013, Ivan ha iniziato col doppio «perché volevo migliorare il mio gioco, anche se oggi il tennis è faticosissimo e due tornei alla settimana sono duri». Una situazione tipica «soprattutto negli Slam, dove in pochi se la sentono di giocare due settimane il singolare 3 su 5 e pure il doppio, e pure per me a volte è complicato. Ma fortunatamente siamo in parecchi, negli ultimi anni, ad aver deciso di frequentare entrambi gli ambienti».

Anche per Dodig il doppio è ingiustamente sottovalutato, nonostante i fan che seguono lo sport dal vivo si dimostrino affezionati ai match di coppia: «L’ATP fa molto per promuovere il singolare, ma i doppisti meriterebbero di più. La gente, spesso non può vedere le partite in televisione, nessuno parla di loro. Eppure il Brasile dimostra che il prodotto funziona: non hanno singolaristi al top ma doppisti sì, fanno vedere tanti loro match e il risultato è che, laggiù, vi assicuro che c’è un sacco di gente che si è messa a guardarlo. E pure a giocarlo. Se dessimo la possibilità al pubblico di vedere quanto è divertente e tecnicamente interessante, molti si affezionerebbero».

Già. Basterebbe trasmetterlo. Soares ha recentemente twittato ai suoi 12.400 follower (mica pochi: molti saranno tifosi locali ma numericamente sono gli stessi di Kohlschreiber, numero 26 in singolare) che TennisTv, la società che vende le partite del Tour in streaming, non sta rendendo un buon servizio allo sport, e che sarebbe ora di mostrare un po’ di rispetto per tutti i tennisti, non solo per il soliti noti: «Non solo far vedere più doppi, ma più partite in generale. C’è molto tennis in televisione, ma quasi tutto quello che si vede è ciò che accade sul campo centrale, cioè il 20% di un torneo. Se sei uno spettatore da casa, non puoi guardare né sapere altro. Invece sugli altri campi ci sono ottimi giocatori e molti grandi match che vengono negati agli appassionati, tanto che spesso non hanno la possibilità di conoscerli o di seguirli. Siamo una associazione (parla dell’ATP, ndA) ma non facciamo certo un gran lavoro nel promuoverci, eccezion fatta per le superstar. Tutti devono essere visibili».

Ma il doppio non vende biglietti, questa è l’accusa fondamentale di buona parte della stampa specializzata, più snob di tanta parte degli appassionati, e del blocco dei singolaristi radicali. «So che alcuni dicono così – risponde Soares – ma la vera domanda è: chi li vende, i biglietti? La risposta la conosciamo tutti: gli unici che vendono biglietti, sempre e in tutto il mondo, sono Federer, Nadal, Djokovic, Murray. Stop. Il resto, dipende dal mercato in cui ti trovi: per esempio in Brasile, siccome ci sono specialisti forti e le nostre partite vengono seguite, io stesso sono famoso e faccio vendere biglietti. I Bryans vendono moltissimo negli Stati Uniti; in altri Paesi, giocatori locali come Leander Paes sono molto famosi. Ecco come si dovrebbe fare: promuovere il tennis a seconda del torneo e della situazione». Cabal gli fa eco: «Cosa significa che vendono biglietti e gli altri no? I quattro big vendono più di tutti gli altri messi insieme, singolaristi compresi, nessuno può competere con loro! Sono di un’altra categoria». Sentite Rojer, che denuncia ma propone una scappatoia: «Credo che la responsabilità sia congiunta. Prima di tutto noi giocatori dovremmo essere i primi ad agire come “responsabili marketing” di noi stessi (6) e farlo meglio che in passato. Cercare di attirare in qualche modo l’attenzione e costruire una base di appassionati. Però sì, anche l’ATP ci deve aiutare di più, nonostante mi pare si siano accorti, finalmente, anche di noi. Sa quante volte insistiamo per giocare sui campi principali, per avere copertura televisiva? Quante discussioni, quante lotte? A volte ci pare di correre su per il pendio di una montagna, tanto è complicato. Ma dobbiamo continuare e, un giorno, ce la faremo. Perché sono certo che al pubblico piacerebbe vedere il doppio in televisione, anche per confrontarlo con ciò che vedono nei match di singolare: la gente non si rende conto di quanto si debba essere forti per essere un top 10 di specialità. Metteteci sul centrale prima di Rafa e Roger, fate che ci osservino, organizzate più attività di promozione, clinic, interazioni con i tifosi. Da parte nostra, promettiamo di essere disponibili, perché non sempre succede».

Rojer ha ragione, anche quando ricorda che, spesso, i colleghi del singolare li guardano con sufficienza. Eppure non sono dei brocchi. «Un torneo è fatto di singolo e di doppio, uno non può fare a meno dell’altro, checché ne pensino alcuni. Noi riconosciamo che le attrattive sono Federer, Nadal e Djokovic ma non vuol dire che tutto il resto è un popolo di servi che deve accettare ogni cosa: abbiamo un nostro ruolo nel Tour. Senza i doppi, i tornei per chi compra i biglietti non sarebbero la stessa cosa».

Tempo fa, lo strampalato picchiatore russo Dmitry Tursunov (ex 20 in singolare, 36 in doppio) lamentò una condizione per conto suo assurda: arrivi a essere uno dei primi 100 giocatori al mondo in uno sport come il tennis, non le freccette, eppure a malapena termini in pari con le spese. Giocare gli costava duecentomila euro l’anno e se, in 12 mesi, si è calcolato che i top ten si dividono 60 milioni di dollari, il resto del mondo tennistico fa poco meno che la fame (7). Tursunov ha ricavato 5 milioni e mezzo sommando 15 anni di attività, infortuni, crisi. Dopo le imposte, tolte le spese e i mesi morti, ha ragione lui: in tasca resta solo la frustrazione.

Nel doppio, la soglia della sopravvivenza è molto più risicata: una quindicina di coppie guadagna piuttosto bene, non di più. Il numero 50 del ranking Treat Huey, a parte il dover portare un nome ostico e la notorietà del sindaco di Pianezza, denuncia un fatturato ridicolo: 50.000 dollari, sempre lordi, nei primi quattro mesi del 2015. Entrate dagli sponsor, zero: è già qualcosa se non deve pagarsi attrezzatura e abbigliamento. Sottrai le tasse e le spese, ti rimane niente. Neanche la possibilità di sfruttare il basso costo della vita delle Filippine perché vive da anni ad Alexandra, Virginia.

Ma è accettabile, che il cinquantesimo tennista in doppio e il centesimo in singolare guadagnino meno del centomillesimo calciatore del globo, di un pallonaro del Lumezzane che incassa 50.000 euro lordi l’anno di stipendio ma, sostanzialmente, senza spese a carico e pagato non solo se perde, ma anche per non giocare? Quale effettiva possibilità di vivere da tennisti per professione si offre, se la domanda è diffusa pure a Curaçao ma l’offerta garantisce ricchezza a venti persone e pane secco agli altri?

Dodig è un esempio di imprenditore saggio, cui è andata bene: «Per diventare forte ti devi pagare almeno un coach e un preparatore. Se sei uno dei tanti, come me, che non hanno sponsor, paghi tutto di tasca tua. Io ho usato il doppio per diventare un tennista migliore e anche per guadagnare più soldi, da investire per tenere in piedi la squadra che mi segue e per risparmiare qualcosa per ciascun anno di carriera. Ma c’è anche chi non è riuscito o non ha voluto investire i guadagni per migliorarsi: perché è rischioso, oppure sei mal consigliato, o sei solo, finisci per perdere posizioni in classifica e tanti saluti al budget. I soldi sono troppo importanti, per chi non è una stella». Cioè, quasi tutti. Soprattutto i doppisti.

Durante il torneo di Bucarest dello scorso aprile è successo un fatto curioso. Un gruppo di doppisti ha organizzato una giornata dedicata alla promozione della specialità ma… pensata per i giornalisti. Perché sono (siamo!) una parte del problema e una parte della soluzione. Il miglior doppista rumeno del globo, Horia Tecau – tre volte di fila finalista a Wimbledon: alzi la mano chi lo sapeva – e il suo compagno Jean-Julien Rojer si sono spesi per raccontare, a chi avrebbe il dovere di divulgare al pubblico, che esistono anche loro. «Stiamo cercando di rendere i giornalisti più consapevoli sul doppio. Vorremmo che ci conoscessero di più, anche a livello personale, e che in futuro si parli e si scriva di più su quello che facciamo (8)». Un trifinalista di Wimbledon che invita in campo un cronista per mettergli a posto il servizio, farsi conoscere e chiedere, cortesemente, di non dimenticarlo. È il segno che qualcosa non va.

Del resto, quanti giornalisti specializzati saprebbero nominare cinque coppie nella top ten? «Infatti – aggiunge Cabal – il doppio è bistrattato. La responsabilità è del Tour in generale: se tutti facessero qualcosa per valorizzare il doppio avremmo un altro circuito di valore. Ci metto anche la stampa, che potrebbe fare un lavoro migliore nei nostri confronti. Per esempio, iniziando a considerarci». Secondo Rojer, la verità è che «non veniamo stimati a sufficienza anche se abbiamo talento, benché diverso da quello dei singolaristi. Siamo veloci, reattivi, spesso giochiamo il serve&volley classico che nel “grande tennis” è sparito ed è, per me, bellissimo da guardare. E poi nei nostri match trovi la strategia, gli schemi, le tattiche». C’è materiale per narrazioni, sul doppio, ma si butta via tutto, da anni. «A Bucarest ci ha fatto piacere conoscere qualche cronista, e pure metterli in campo»: immaginatevi Andy Murray a dire lo stesso.

Il primo giocatore a denunciare pubblicamente la miseria in cui il popolo dei tennisti estranei ai risicatissimo star-system era costretto a sguazzare fu il doppista per necessità Mark Keil, singolarista famoso per un pomeriggio: fu il più scarso di sempre (definizione che si diede da sé) a battere Pete Sampras, per giunta sull’erba, al Queen’s del 1991. Insieme a un altro peone del circuito, Geoff Grant, confezionò 15 anni fa The Journeymen (Gli operai specializzati): un documentario efficace e di rara tristezza, montato alla bell’e meglio tagliuzzando 140 ore di girato tra spogliatoi, sala massaggi, campi di allenamento e alberghi. Nonostante dividessero gli spazi comuni con Agassi, Courier, Becker e le altre primedonne, Keil e Grant mostrarono che si poteva essere pezzenti anche col pass per il campo centrale e la transportation lussuosa di Indian Wells, e che la vita da sogno del tennista era in effetti una balla gigantesca. Una distorsione della realtà, come il gratta e vinci: una possibilità concessa a uno su mille. Solo che la lotteria è in vendita dal tabaccaio, mentre questa povertà è il regalo per chi, teoricamente, ce l’ha fatta, arrivando tra i migliori al mondo in uno sport dalla fama planetaria. Keil cambiava le lampadine fulminate nel motel e sopravviveva (9) mendicando iscrizioni ai tabelloni con singolaristi in vena di altruismo, come Ivanisevic. Che con lui divise il campo, parole di Goran, «tre volte: la prima, l’ultima, e mai più nella vita».

John McEnroe, nel 2013, ha proposto l’abolizione del doppio. Con questa motivazione: li ha visti giocare, li ha trovati lenti e inadatti al singolare, ha reputato che spendere i soldi del doppio per finanziare altri singolaristi sarebbe più saggio. È un parere curioso: con la velocità di oggi garantita da corde, racchette e progressi nelle scienze motorie, John McEnroe verrebbe impallinato da qualunque Steve Johnson, ridicolizzato da Bautista Agut. Nessuno, tra i primi cento, gli darebbe il tempo di produrre le sue magie, gli attacchi anticipati, i colpetti di polso in mezza volata. È che, magari, MacGenius non riconosce degno di essere ricordato Pat Galbraith, numero uno del mondo il 18 ottobre 1993. Forse perché prese per il naso Agassi e McEnroe nella finale dell’Open del Canada del 1992. Un impiegato del catasto, a guardarne la foto sbiadita sulla media guide, ma con la manualità e i riflessi di un prestigiatore. Solo che, ahilui, tirava forte quanto la Wozniacki: in singolare, uno così poteva recitare la parte del capriolo abbandonato in mezzo a un convegno di iene a digiuno. In doppio, faceva impazzire gli avversari e la gente, disabituata ad assistere allo spettacolo la cui fonte mancava in muscoli e centimetri eppure, guarda un po’, incantava.

Leander Paes, da quando il girovita si è fatto tosto e l’età quella della spalla tecnica, continua a spargere per il globo il medesimo messaggio: di più, non significa sempre meglio. A cinquanta gradi non si respira meglio che a venti. La monocultura vuole che il pim-pum-pam sia l’unico metro della grandezza, eppure la gente si sdilinquisce inondandosi le bacheche di Facebook con gli hot shots che, guarda il caso, non di rado sono sfide ai limiti delle umane articolazioni lanciate da Paes. Uno che, dopo i trent’anni, ha vinto 5 dei suoi 8 Slam, il penultimo a 39, l’ultimo a 40.

Peter Fleming, la spalla violenta di McEnroe con cui vinse quattro Wimbledon e tre US Open, ha attizzato il fuoco contro i gemelli più celebri del doppio: «Quando sento dire che i Bryan sono la coppia più forte di tutti i tempi, mi chiedo: “Ehi, scusate, dite sul serio?”». La tesi è nota: con i migliori singolaristi in campo, i gemelli non avrebbero vinto un tubo. Non esiste la controprova, solo indizi occasionali (e dicono, spesso, altro: Bob e Mike hanno battuto Federer con Allegro, Mirnyi e O’Brien; hanno perso contro Roger e Henman e Roger e Wawrinka, ai Giochi del 2008; hanno battuto Lopez/Nadal, Nadal/Robredo, Moya/Nadal, Nadal/Vidal; hanno battuto Andy e Jamie Murray, Murray e Hutchins, Murray e Auckland). Secondo Soares, «i Bryan hanno tutti i record, ma giocano da una vita. Dubito ci sia un team che abbia mai giocato tanto a lungo e praticamente solo in doppio, a differenza di altre grandi coppie del passato».

Un monumento del giornalismo tennistico italiano come Rino Tommasi lo chiama “il malato terminale”; per lui, i Bryan sono “due brocchi”. Dodig non accetta l’accostamento di Bob e Mike con i somari: «I Bryan? Sono i migliori della storia. Hanno vinto tutto e più di tutti, non scherziamo. Se anche i migliori singolaristi avessero continuato a frequentare il doppio avrebbero vinto comunque? Sì, magari non avrebbero dominato come negli ultimi dieci anni, ma il doppio è un’altra cosa rispetto al singolare. Si sarebbero lasciati sfuggire pochi dei loro Slam, credetemi». Rojer è crudo e realista: «Non raccontiamoci storie: la priorità di tutti, anche di Bob e Mike Bryan, era il singolare. Ma non tutti se la possono permettere. Dopodiché, penso con convinzione che loro siano i migliori di sempre. Parlano i loro record, la loro longevità: giocano ancora a 37 anni, d’accordo, ma perché vincono! Giù il cappello, coi gemelli: sono anche i nostri migliori ambasciatori, una colonna per la famiglia del doppio».

Che è una vera famiglia: qualcuno fa lo sbruffone, confessa Rojer, ma «molti di noi sono ex universitari Usa, dove si gioca molto doppio e, a mio parere, si viene educati a comportarsi in maniera più educata, gentile ed estroversa». Le buone maniere, quelle perse per strada da tanti zoticoni della prima classe tennistica. «Forse i giocatori di singolare hanno più ego, ma è anche giusto; del resto devono affrontare ostacoli duri, farsi una corazza per resistere. Ma la differenza si vede tutta: ecco perché sono contento di essere nel mio ambiente di lavoro».

Il malato può guarire. A condizione che si inizi a picconare lo status quo: il tennis non è proprietà di quattro extraterrestri, almeno finché i tabelloni dello Slam saranno a 128 giocatori e non partiranno dalle semifinali. Il doppio non è “due mezzi singolari”, come pensa un ragazzino della scuola tennis che osserva Ferrer e Robredo smezzarsi il campo di allenamento per palleggiare lungoriga con due sparring. La giornata non è finita con la partita di Tsonga, che ha fatto sbadigliare per un’ora prendendosi a mazzate con Struff, ma resta Tsonga: per un prima media di Marsiglia, è un mito. Ma ci sono anche Matkowski e Zimonjic. Fermati un’ora in più, ragazzino: scoprirai un mondo, diviso a metà.



NOTE
1 Accadde il giorno in cui i Bryan avevano disintegrato il sogno del Grande Slam perdendo contro Paes e Stepanek, poi dominatori nel match per il titolo contro Peya e Soares. Colpendo uno smash in semifinale, Peya si era stirato un muscolo della spalla e addio Slam.
2 Con Kevin Ullyett, africano che vinse 20 partite in singolare, una contro Volandri in Coppa Davis.
3 Risultano due misti a Parigi, uno vinto e uno perso, di Ivan Molina, negli anni Settanta, con Martina Navratilova.
4 Il Player Council è l’organo, formato da rappresentanti dei giocatori, che si riunisce periodicamente per informare la dirigenza Atp sulle istanze degli associati, raccogliere proposte e lamentele, trattare le condizioni economiche. Attualmente ne fanno parte Kevin Anderson, John Isner, Gilles Simon, Stan Wawrinka, Juergen Melzer, Sergiy Stakhovsky. Per il doppio, Bruno Soares e Raven Klaasen. Il presidente, che ha rimpiazzato Roger Federer nell’agosto 2014, è Eric Butorac. Si è fatta ironia sulla differenza di pedigree tra il vecchio e il nuovo presidente; un giocatore magari anonimo ma intelligente e informato come Butorac, però, non è detto non possa rendere un servizio migliore di un fuoriclasse che, spesso, non ha idea dei problemi quotidiani di chi gioca a tennis per mestiere. Per esempio, tutti riconoscevano a Federer, a parte la indiscutibile fama, carisma e capacità di far pesare le sue opinioni. Ma lo stesso Federer si era detto stupito che i giocatori dal 50 al 100 lamentassero che un ritiro impedisse loro di riscuotere l’assegno per il primo turno di uno Slam: del resto, 40.000 dollari pesano nel bilancio di un giocatore di quella classifica, mentre per Roger rappresentano meno di un millesimo del fatturato annuo.
5 Nel 2003 fu vittima di un terribile incidente stradale a Città del Capo, in cui perse la vita suo nipote.
6 Rojer lo fa benissimo: si è scusato più volte per aver “bucato” un appuntamento, ha risposto alle ultime domande via mail, da Madrid, a mezzanotte passata, dopo aver perso un match al Super tie-break.
7 Dmitry Tursunov: Life in the tennis twilight zone
8 In questo senso, non sarebbe una cattiva idea addestrare gli addetti stampa che i giocatori stipendiano a curare un po’ di più le comunicazioni tra giornalisti e giocatori. Forse troppo abituati a gestire la valanga di richieste di interviste ai soliti stranoti, càpita che i responsabili della comunicazione siano sempre più simili a buttafuori e sempre meno a ciò per cui la loro esistenza avrebbe un senso, ossia promuovere la visibilità del tennis.
9 Keil, a detta di Grant, aveva somatizzato quella situazione di lavoratore a cottimo del tennis. Fumava, sbevazzava e mostrava spesso segni di mala sopportazione della sua condizione. Dopo quel film, che piacque a qualche tv nonostante l’ATP lo avesse sostanzialmente boicottato, Keil sparì dalla circolazione per un decennio. È ricomparso alle Hawaii come istruttore di tennis e beach tennis.
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